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La bizzarra storia dell’Isola delle Rose

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Stefano Cavallini

Nel mondo ci sono state molte micronazioni. In Italia, oltre allo Stato del Vaticano e  San Marino, abbiamo avuto, sia pure per un breve periodo, l’Isola delle Rose (o Insulo de Rozoj in esperanto). Questa era un’isola artificiale costruita al largo delle coste di Rimini che dichiarò l’indipendenza dall’Italia nel 1968. La sua storia è raccontata dal bel documentario in esperanto Insulo de la Rozoj – la libereco timigas scritto da Stefano Bisulli, Vulmaro Doronzo, Giuseppe Musilli e Roberto Naccari.

La nascita dell’Isola delle Rose

L’idea di costruire l’isola fu dell’ingegnere bolognese Giorgio Rosa (Bologna, 7 maggio 1925 – Bologna, 2 marzo 2017). Nel 1956 Rosa lavorava nel settore edile e quotidianamente doveva misurarsi con la gargantuesca burocrazia italiana. Inoltre considerava l’Italia un paese influenzato di volta in volta dalle potenze straniere, fossero russi o americani, e prono alla religione. Pian piano maturò l’idea di affrancarsi da questo stato di cose e fare da sé. Scrive l’ingegnere nel suo memoriale Il fulmine e il temporale dell’Isola delle Rose:

I preti, con le loro assurde teorie e le loro sette ti inchiodavano e volevano che tu non facessi nulla che a loro non garbasse; i comunisti cercavano di combattere i signori e di portar via loro, con la terra, anche la loro ragione di esistere; solo i politici, asserviti ai russi o agli americani, avevano un futuro.

Nel 1958 Rosa cominciò a studiare il progetto, brevetto n. 1799/A/1968, di un «sistema di costruzione di isole in acciaio e cemento armato per scopi industriali e civili», cioè una struttura sospesa formata da un’ossatura di tubi d’acciaio. Il 15-16 luglio dello stesso anno, fino a e per tutto il 1960, con un piccolo natante modificato da Rosa col motore di una fiat 500, cominciarono i sopralluoghi per trovare una zona idonea all’installazione. La scelta cadde su una porzione di mare a undici chilometri e mezzo al largo delle coste di Rimini, poche centinaia di metri al di fuori del limite delle acque territoriali, dove la giurisdizione italiana non aveva valore. Nel 1961 Rosa, che sino ad allora aveva agito sempre da solo, al più coadiuvato dalla moglie Gabriella, coinvolse il signor Rinaldini, proprietario di un cantiere navale, e gli commissionò la costruzione di un mototopo veneziano, che chiamò il Luciano, con cui sostituire il natante. La struttura dell’isola viene invece commissionata a una ditta di Bergamo. Si trattava di nove tubi di trentasei metri, che vennero poi assemblati a Pesaro il 14 luglio 1964. Secondo le dichiarazioni di Rosa i lavori, ammontanti a un costo complessivo di quattrocentomila euro, all’epoca cento milioni, furono completamente auto-finanziati.

Il 31 luglio i tubi vennero posizionati sul fondale marino e si cominciò a montare la struttura che nei progetti avrebbe dovuto sostenere una piattaforma dell’altezza di cinque piani, anche se poi ci si sarebbe fermato a uno solo: quella sarebbe stata la futura repubblica esperantista dell’Insulo de la Rozoj. I lavori di ancoraggio si rivelarono più complicati del previsto e nel 1965 l’impalcatura venne ribaltata in seguito a una mareggiata. Questo però non fermò l’ingegnere che il 21 maggio 1966 vide finalmente compiersi il suo sogno, la costruzione della piattaforma era finalmente ultimata.

La posizione dell’Isola delle Rose al largo delle coste di Rimini. Foto: Wikipedia.

Indipendenza e inabissamento

Nel frattempo la notizia dell’esistenza dell’Isola si diffuse e cominciarono ad apparire i primi titoli sui giornali come Sorrisi e canzoni, Epoca e Novella Duemila. Notorietà che portò alcuni problemi: il colonnello Sanguinetti della capitaneria di porto di Rimini intimò di cessare i lavori, perché la zona era stata affidata in concessione all’ENI, e anche DIGOS e la dogana cominciarono ad interessarsi all’esistenza dell’Isola. Intanto, nell’agosto del 1967, questa aprì al pubblico, e i pescatori di Rimini cominciarono a organizzare gite in barca per i turisti più curiosi e gli stessi riminesi, che accolsero con favore la novità. Nell’idea di Rosa il turismo, insieme a un’indipendenza fiscale a mo’ di novella San Marino (il che getta qualche ombra sulla nobiltà delle motivazioni dell’ingegnere) sarebbe dovuta essere una delle fonti di sostentamento dell’isola. Per dichiararsi indipendente, il 1° maggio 1968 questa adottò una bandiera, un vessillo triangolare arancione su cui campeggia lo stemma della nuova repubblica, tre rose rosse in campo bianco. La dichiarazione d’indipendenza venne redatta in esperanto grazie all’aiuto di Albino Ceccanti, frate francescano ed esperantista. La repubblica fu battezzata col nome di Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj. Spiega l’ingegnere:

Il fatto che l’indipendenza sia stata dichiarata il 1° maggio è casuale. Dovevamo renderci indipendenti il prima possibile (perché presto sarebbe cominciata la stagione estiva). «avevamo intenzione di diventare un’attrazione turistica, pensavamo di mettere in piedi degli esercizi commerciali. Aprimmo un bar e un ufficio postale, emettendo varie serie di francobolli. Volevamo creare una banca e coniare monete. Altre iniziative sarebbero sorte in seguito, sull’esempio di altri microstati, come San Marino. La cosa avrebbe retto, dove c’è libertà c’è ricchezza.

Nonostante le buone intenzioni, le idee dell’ingegnere, a parte i francobolli, restarono fantasie. Fantasie che fiorirono copiose intorno alla vera natura dell’Isola: chi pensava fosse un night club, un casinò, una stazione radio pirata o addirittura una base segreta russa (non dimentichiamo che siamo in piena guerra fredda ed è al governo la DC). Il clima di sospetto intorno all’isola crebbe e pose fine, dopo cinquantacinque giorni, alla sua indipendenza.Il 25 giungo 1968 le pilotine dei carabinieri e della Guardia di Finanza circondarono e occuparono militarmente l’isola. Giorgio Rosa, in un estremo tentativo di salvare l’isola, iniziò la sua battaglia legale: inviando un telegramma al Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, ma senza risposta, e provando inutilmente a interpellare politici e avvocati, consultando persino il Sovrano Militare Ordine di Malta per un’eventuale cessione dell’isola. L’ingegnere tentò in ogni modo di salvare l’isola, ma ormai non c’era più tempo. L’11 febbraio 1969 i sommozzatori della marina militare segarono le giunzioni tra i pali e minarono i piloni con 75 chili di esplosivo, ma la struttura resistette a ben due tentavi di demolizione, il secondo condotto con 120 chili per palo. Solo una burrasca che l’avrebbe fatta inabissare definitivamente. É la fine dell’Isola. A noi resta la sua storia. Al suo posto venne costruita una piattaforma metanifera chiamata Azalea B.

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Stefano Cavallini

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