È passato ormai più di un mese dalla notizia del primo paziente italiano affetto da Covid–19, la malattia causata dal nuovo coronavirus proveniente dalla Cina. Da quel momento, che appare ormai lontanissimo, il governo ha dovuto prendere decisioni difficili. Sono stati fatti alcuni errori, tutti abbiamo elogiato il lavoro di medici e infermieri e, purtroppo, abbiamo pianto molti morti. Ci sarà tempo per valutare come l’Italia ha gestito questa emergenza da più punti di vista, ma già ora sembra evidente un fatto. Il coronavirus ci ha messo un’altra volta di fronte, con grande dispiacere, alla debolezza del progetto europeo.
Ancora una volta, non solo l’emergenza non è stata gestita attraverso la collaborazione degli Stati dell’UE, ma è stata persa l’occasione per rafforzare quell’identità europea che appare così flebile nella percezione dei cittadini che abitano il Vecchio Continente. Se la pandemia e la conseguente quarantena forzata sono stati la scintilla che ci ha permesso di recuperare il senso di comunità all’interno del nostro Paese, non si può dire altrettanto di ciò che rimane della nostra appartenenza europea. E questo porterà senza dubbio con sé alcune conseguenze.
In un articolo accademico divenuto famoso tra gli studiosi del settore, Peter Mair definisce l’Unione Europea come «a polity without politics», un ordinamento amministrativo all’interno del quale non avviene una discussione politica. L’UE è concepita come un organismo che ha diverse funzioni: amministrativa, finanziaria, giuridica, ma non politica. Molti partiti populisti hanno saputo sfruttare questa mancanza per rivolgere ripetutamente attacchi diretti non tanto alle politiche approvate all’interno dell’UE, quanto nei confronti del progetto europeo stesso, affermando di voler indire un referendum nei propri Paesi per poter uscire da questa comunità. Qualcuno è pure riuscito nell’intento.
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D’altro canto, anche nella percezione dei cittadini alieni alla retorica populista, l’Unione Europea appare come una sorta di organismo di controllo, talvolta di sostegno, quasi mai come un luogo per un confronto politico. Così anche l’opinione pubblica non si divide sulle policies europee, ma si polarizza tra chi è a favore o contro l’esistenza stessa di questo organismo. Purtroppo più volte l’Unione Europea ha dato prova della sua natura amministrativa e della sua incapacità di fungere da guida politica per i suoi Stati membri, che dipendono ancora fortemente dalle proprie maggioranze di governo.
Se infatti questa organizzazione ha un’origine prettamente economica, essendo nata con lo scopo di tutelare gli interessi dei suoi Stati membri al cospetto di colossi come Cina e Stati Uniti, più volte è apparsa impotente di fronte ad altre emergenze come immigrazione, cambiamento climatico, impatto digitale. In questi casi a prevalere sono state le decisioni assunte dai diversi governi, con il risultato della nascita di un conflitto perenne tra visioni differenti riguardo a temi che necessiterebbero invece di un approccio comune e coordinato. Una delle conseguenze è stata, di fatto, l’indebolimento dell’identità di cittadini che continuano a sentirsi prima italiani, spagnoli, francesi e poi europei.
Anche il linguaggio dei media – a questo proposito è interessante leggere questo capitolo di European Identities: what the media say, volume curato da P. Bailey e G. Williams – è orientato a trattare l’Unione Europea e in generale l’Europa come un’entità estranea, seppur con differenze tra i diversi Stati membri. In Italia, soprattutto. «Il “noi” europeo è molto meno presente rispetto agli altri Stati, tuttavia il tema dell’Europa trova ampio spazio all’interno dei telegiornali, ma soprattutto per il suo ruolo istituzionale. Le tv italiane fanno infatti costanti riferimenti all’UE come organo di governance». L’Unione Europea appare ai suoi cittadini più come l’intero palazzo condominiale che come la propria abitazione.
Questo atteggiamento, più o meno condiviso dai cittadini dei diversi Stati membri, è nella norma. Infatti, il peso degli Stati nazionali è ancora forte e soprattutto la costruzione dell’identità di un popolo passa attraverso diverse tappe fondamentali. L’Italia, ad esempio, ha imparato a conoscersi in trincea nelle due grandi guerre del Novecento, in fabbrica, nelle contestazioni di piazza. Del resto, «fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani», si diceva nel 1861.
Non è pensabile dunque fare gli europei quando ancora non si è fatta l’Europa, quando cioè ancora l’Unione Europea mantiene un semplice ruolo amministrativo, legato soprattutto all’economia, alla finanza e al commercio. Per fare l’Europa, però, è necessario che i più importanti leader politici degli Stati membri diano dei segnali ai propri cittadini, prendano decisioni comuni, dimostrino di marciare nella stessa direzione. Finora invece si sono divisi, come detto prima, su questioni che hanno sollevato numerose divergenze politiche. La più simbolica in questo senso è, ovviamente, la gestione del fenomeno migratorio, che ha sollevato solo contrasti tra chi preferisce erigere muri e delimitare confini con del filo spinato e chi, invece, opta per una condivisione sull’intero territorio europeo delle richieste d’asilo.
Per adesso, l’unico tema che è riuscito in minima parte a unire i leader e i cittadini europei è stato il susseguirsi degli attentati terroristici degli ultimi anni. Ha però contribuito solo a una costruzione dell’identità in senso negativo, cioè rispetto a ciò che non vogliamo essere come europei.
L’emergenza del nuovo coronavirus, piombata nelle nostre vite senza preavviso, è stata l’ennesima prova delle debolezza del “noi” europeo. Un’emergenza sanitaria non ha colore politico, non avanza bandiere ideologiche e, soprattutto, è immediatamente tangibile per tutti i cittadini. Scoppiata con forza nel cuore del nord Italia un mese fa, è stata comunque affrontata sul piano nazionale dai leader dei diversi Paesi. Non solo non hanno colto il pericolo imminente rimandando l’adozione di misure restrittive, ma hanno trattato nei loro discorsi l’Italia come un Paese straniero. Con il quale essere solidali, certamente, ma non per il quale attivare misure di sostegno concreto. Da un lato, dunque, l’emergenza non è stata immediatamente colta nella sua dimensione europea. Non si sono cioè presi provvedimenti comuni sin dall’inizio. Dall’altro non è stato attivato dai leader politici un cordone di solidarietà che potesse sostenere le zone in maggior difficoltà con l’approvvigionamento di strumenti utili a superare l’emergenza (come mascherine e respiratori). L’esempio dell’Italia è in questo senso lampante. Molti imprenditori del nord Italia hanno convertito la propria produzione in mascherine, altri hanno recuperato i respiratori, gli aiuti esterni sono arrivati da Cina, Cuba e Russia. Dagli Stati europei sono arrivate invece parole di conforto, dichiarazioni di solidarietà e addirittura una cieca e illusoria speranza che l’emergenza potesse rimanere confinata in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.
Sia chiaro, non si tratta di una colpa, al massimo di un’occasione persa. I leader nazionali hanno semplicemente agito come sono sempre stati abituati a fare, cioè preservando i propri interessi, il proprio popolo. In Europa non era pronto un sistema comune per affrontare un’emergenza di questo tipo perché, semplicemente, l’Europa come “comunità di popoli” ancora non esiste. Come si diceva prima, però, sono alcune tappe della storia che formano lo spirito di un popolo e che contribuiscono a costruirne l’identità. All’interno di queste fasi storiche sono le azioni degli uomini a fare la differenza. Un piano comune di emergenza, frequenti colloqui tra i leader nazionali, azioni di solidarietà reali avrebbero probabilmente contribuito a cambiare la percezione dei cittadini e avrebbero rafforzato il “noi” europeo. L’occasione, più di altre volte, lo permetteva ma, come in passato, non è stata colta.
L’Unione Europea come organismo istituzionale invece, dal canto suo, ha confermato la sua natura prettamente amministrativa e finanziaria. Dapprima l’imbarazzante dichiarazione sullo spread della Presidente della BCE Christine Lagarde, che ha addirittura spazientito il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella; poi l’inversione di rotta, le promesse di sostegno economico attraverso un piano finanziario condiviso. Aiuti necessari, che è bene che ci siano e che confermano la presenza di un sistema economico forte, volto ad evitare il collasso delle economie di quei Paesi – Italia in primis – che usciranno falcidiati da questa emergenza sanitaria. Un sostegno concreto, da miliardi e miliardi di euro, che però è lontano anni luce dalla percezione reale dei cittadini e che, ancora una volta, rimanda alla definizione di “polity without politics”. L’Unione Europea come organismo sta facendo e farà la sua parte, ma non si costruisce l’identità di un popolo con parole come spread, corona-bond, Btp e così via. Se l’UE ha fatto quello che doveva fare, non si può dire altrettanto dei leader europei, che non sono riusciti a mandare un messaggio politico europeista, che alimentasse la percezione di una grande comunità di popoli europea.
Le conseguenze politiche saranno purtroppo negative in questo senso. I cittadini dei diversi Stati – si pensi soprattutto all’Italia – usciranno da questa emergenza consapevoli delle proprie forze, piangeranno i propri morti, l’identità nazionale ne uscirà sicuramente rafforzata. E quando i leader nazionalisti cavalcheranno l’onda e dipingeranno l’Unione Europea come un’entità astratta fatta di banchieri e professoroni che non si curano dell’interesse dei cittadini, i cosiddetti europeisti a difesa del progetto europeo potranno solo invocare le misure finanziarie messe in campo dall’Unione per salvare le economie nazionali. L’identità europea dunque ne uscirà ulteriormente indebolita, e il sogno di una vera comunità di popoli sarà sempre più lontano.
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