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Economia

Musica da camera: la Cina e l’epidemia

Published by
Carlo Paganessi

Uno dei fenomeni sociali più interessanti della pandemia di coronavirus ora in corso è legato alla musica e alla scena dei concerti dal vivo. Con il divieto assoluto di organizzare eventi (tanto meno concerti live, che con migliaia di partecipanti avrebbero potuto fungere da formidabile serbatoio di contagio) gli artisti e gli appassionati di musica si sono arrangiati in maniera alternativa. Nelle ultime settimane moltissimi musicisti in Cina hanno trasmesso i propri eventi live dalla propria camera da letto, da casa propria o, più in generale, da un luogo diverso da quello del concerto.

Questo revival dei festival musicali in streaming contagia tutti i generi musicali: dal punk dei The Fallacy alla techno e trance dei vari DJ (Laughing Ears, Kilo Vee e Michael Cignarale) che si sono spostati dai club più popolari di Pechino, Shanghai e Hong Kong a casa propria per tenere i propri DJ set. La tendenza si è poi spostata a Occidente, con un numero sempre crescente di artisti che ha spostato le proprie performance sui social network. È il caso di Camila Cabello, Brandy Clark e Shawn Mendes, che hanno tenuto un concerto da casa propria su Instagram. Chris Young ha invece scelto Facebook.

Michael Cignarale, DJ molto conosciuto a Shanghai. Foto: Twitter.

L’impatto del virus ha prepotentemente modificato anche questi aspetti, aggiungendo l’elemento della distanza (aggirata a mezzo internet) agli eventi di (non) ritrovo. Molti provider di servizi in streaming (Netflix e YouTube) sono stati costretti a ridurre la qualità dei propri servizi per non colpire negativamente l’infrastruttura internet dei vari Paesi, già messa a dura prova dall’aumento vertiginoso dello smart working.

Leggi anche: Coronavirus, stop all’italiano medio: servono attenzione e responsabilità. Ciò che ci è mancato finora

Pacco dalla Cina

Il virus sembra aver fatto rientrare in casa anche le continue proteste di Hong Kong. Anche queste però si sono trasferite on-line, principalmente su Telegram e in parte su altri social network non facilmente tracciabili dal governo cinese e che sono raggiungibili attraverso VPN per aggirare il grande firewall cinese. I social “copia” cinesi (su tutti Weibo, che rappresenta una specie di Facebook sotto steroidi con Whatsapp e YouTube integrati) sono tutti controllati dal governo e un comportamento deviato su queste piattaforme può colpire il proprio sistema di credito sociale.

La forte stretta del governo cinese sui social e, in definitiva, su tutti gli aspetti della vita privata dei cittadini, è stata fondamentale per prevenire la fuga di notizie sul virus (che pare essere in circolazione già da fine novembre o inizio dicembre). Una barriera rotta solo quando, a metà gennaio, l’epidemia era troppo grande per essere taciuta e iniziava a espandersi al di fuori di Wuhan e della Cina stessa. All’aumentare della gravità dell’epidemia, tuttavia, il governo cinese sta compiendo tutta una serie di tentativi (abbastanza maldestri, peraltro) di attribuire ad altri l’insorgere del virus.

In primo luogo l’obiettivo dei tentativi di depistaggio fu l’Italia, con Pechino che cercava di porre in risalto i casi importati con voli diretti da lì. Si appoggiava alle parole del biologo Vincenzo D’Anna in merito al fatto che i virus fossero due: uno generato in Cina tramite zoonosi dai pipistrelli e uno generato in Lombardia dal contatto con pollame allevato su terreni inquinati. Dopo la “sparata” il biologo ha rassegnato le proprie dimissioni dal ruolo di presidente dei biologi italiani, salvo poi ritirarle dopo la mezza smentita in cui asseriva che la sua fosse solo un’ipotesi.

Il presidente cinese Xi Jinping. Foto: Wikimedia Commons.

Là dove nasce il virus

Più tardi è stato il turno degli Stati Uniti, accusati di aver portato la pandemia tramite i membri dell’esercito americano che hanno partecipato ai war games di ottobre 2019 (circa trecento effettivi). La teoria è stata corroborata dalle parole di un epidemiologo, Zhong Nanshan, che ha poi rettificato dicendo che non necessariamente il posto dove un virus viene riscontrato per la prima volta è quello in cui è nato. Ha anche specificato che sono necessarie ulteriori indagini.

Il posto in cui si riscontra per la prima volta un virus non è necessariamente quello in cui nasce, secondo Zhong. Il che è vero, ma c’è un elemento di nulla trasparenza del governo di Pechino che preoccupa. La copertura (ormai saltata) dell’epidemia in Cina ha ridotto il contatore di preparazione di due mesi di per il resto del mondo. Questo senza contare quello che tutti gli indizi sinora raccolti da biologi e dal mondo della scienza indicano come il detonatore della crisi. Il mercato degli animali selvatici vivi era già stato nell’occhio del ciclone nell’epidemia di SARS del 2003-2004, questa volta nella città di Foshan. Il contatto tra specie diverse e il mescolamento di fluidi di natura animale hanno fornito un formidabile terreno di coltura per il virus, che si è poi esteso agli umani e infine al resto del mondo.

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Carlo Paganessi

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