C’erano una volta gli anni Sessanta: anni di importanti rivolgimenti e rotture non solo in contesto sociale, ma anche nel campo cinematografico. Sono gli anni del cinema “moderno”, del cinema che rompe con gli stilemi classici per cercare nuovi modi di espressione, fuori dalla tirannia della narrazione lineare hollywoodiana. Erano gli anni delle varie nouvelles vagues, di Godard, Truffaut, Resnais, Varda, dei nostri Antonioni, Fellini. Erano dunque gli anni dove il cinema sviluppava una concezione “autoriale”, si guardava allo specchio, si scomponeva e ricostruiva, e così scomponeva anche il tempo, l’identità e soggettività umana. E in Svezia, territorio dove regnava sostanzialmente un codice linguistico mainstream cinematografico altrettanto imprestato dagli Stati Uniti, arrivò la mosca bianca, germinazione del suo tempo: Ingmar Bergman. Certamente la sua carriera era avviata ben prima. Era attivo a teatro e nel cinema già negli anni Quaranta, ma è soltanto con Sorrisi di una notte d’estate (1956) che raggiunge una notorietà europea, consacrata poi da Il settimo sigillo (1956) e Il posto delle fragole (1958), e rafforzata nei film degli anni Sessanta e Settanta. Il momento in cui arriva Persona (1966), nonostante l’acclamazione critica ormai consolidata, è tuttavia inaspettato: l’operazione sembra costituire un culmine, persino per lo stesso Bergman, che scriverà nel libro Immagini (1995) di esser andato tanto oltre, quanto poteva andare proprio attraverso questo film.
Scivolare l’una nell’altra
Inizia proprio da Persona l’isolamento del regista nell’isola di Fårö, un dichiarato periodo di pausa dagli studios cinematografici, dalla vita pubblica, per la solitudine di un domestico remoto. E la lavorazione di Persona infatti prende il piede giusto proprio nel momento in cui le riprese si spostano nello stesso domicilio di Bergman. Non è un caso, in un tessuto cinematografico così altamente riflessivo, che anche le protagoniste vivano la gran parte del loro rapporto a loro volta in isolamento, lontano dalla città, dal palcoscenico principale dell’identità pubblica di ognuno. Elisabet Vogler (Liv Ullmann) è un’acclamata attrice che attraversa una profonda crisi, che investe sia il piano lavorativo che personale. Il momento topico, che porta al blocco e ad una forma di mutismo strenuo, avviene durante una rappresentazione di Elettra di Sofocle, dove l’attrice si dissocia dal suo personaggio, con un’espressione derisoria. Viene ricoverata in un ospedale psichiatrico, dove però le viene riconosciuta una sostanziale sanità psico-fisica. Il mutismo pare una scelta volontaria, per la quale la sua psichiatra consiglia un periodo di riposo e isolamento nella sua casa in riva al mare, affidando la paziente alle cure della giovane infermiera Alma (Bibi Andersson).
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Alma, convivendo con Elisabet, si lega sempre più alla donna, riversando verso il suo volto muto un fiume di confessioni, e rendendo ben presto difficile distinguere, tra le tante cose, chi sia il paziente e chi il curante. Un soggetto simile per certi versi al film appena precedente del regista, Il silenzio (1963), ultimo capitolo di una trilogia sul silenzio di Dio, tema religioso presente anche in Persona, dato che il significato del nome Alma in latino è “anima”, mentre il nome Elisabet ha radici ebraiche che riconducono a Dio, alludendo dunque al dialogo ininterrotto dell’anima, ai limiti dell’isteria, con un dio muto, dalla compassione forse inesistente. Ma già ne Il silenzio il significato religioso andava a sfumarsi, a diventare una delle tante vie, rispetto a un più palese piano psicologico, infatti il racconto era imperniato sul rapporto affettivo e lacerante tra due sorelle. Lo strascico tematico in Persona si sente, come è evidente il debito verso il dramma teatrale La più forte (1889) di August Strindberg, autore imprescendibile per la formazione teatrale di Bergman. Da Il silenzio Bergman prende anche gli spazi angusti, di nuovo la sfera domestica, come accade d’altronde nei codici del melodramma in generale, che si carica dei conflitti interiori, delle pulsioni irrefrenabili, altrimenti rimaste sepolte, represse nell’ambiente pubblico.
Persona non può che essere un film, come da titolo, sull’identità e sul conflitto identitario, tema caro al regista svedese. Nel momento in cui si affronta il personaggio di Elisabet si cade in una forte indeterminatezza, a fronte del suo silenzio e della costante attribuzione da altri personaggi di intenzioni, carattere, personalità, che permette d’altronde una portata semantica piuttosto generosa. Elisabet si dissocia da Elettra, forse perché non riesce più a impersonare un ruolo supplice, quel ruolo di donna, di moglie, di madre che la società le richiede. Alma al contrario, prima di intraprendere l’esperienza di cura con Elisabet, era invece ben pronta a sposarsi, ad avere figli, a prendere per sé un nido di confortante sicurezza. Cade la maschera, che dietro lascia un bacino anarchico di frustrazioni dove è impossibile distinguere il Sè dall’Altro. D’altronde lo stesso titolo di Persona allude alla dramatis persona, la maschera indossata dagli attori nel teatro classico romano. Per un regista che ha sempre dato molto valore agli attori, e che anzi spesso se n’è trovato profondamente e personalmente coinvolto (come con Liv Ullmann), il rapporto con essi è sempre stato d’amore e odio, analogo ai sentimenti conflittuali di Alma per Elisabet. Maneggiando sin dai nove anni le fila di teatrini di marionette, un mondo alternativo al reale e tuttavia suo inevitabile specchio, Bergman nelle riprese ha tentato di esercitare spesso un controllo totale sulla scena. In fondo lo stesso Persona è la storia di un sentimento di irrazionale, disperato possesso, a fronte tuttavia di un’irriducibile alterità, com’è quella di qualsiasi volto umano.
Costante infatti è la natura illeggibile del volto – per un regista che otto anni prima aveva realizzato proprio Il volto – nel cinema bergmaniano. L’amore per l’attore è nell’unica valorizzazione del primo piano in tutta la sua pienezza espressiva, ricordando l’uso che ne sapeva fare il danese Carl Theodor Dreyer, ad esempio ne La passione di Giovanna d’Arco (1928). Persona è un diamante di recitazione attoriale sia da parte di Ullmann che Andersson, ma è al tempo stesso la sconfitta dell’espressione come denotazione, cioè come fondo di verità. Il film allude in molti aspetti alla natura illusoria dell’esistere umano in toto: la reale possibilità di entrare in comunione con l’altro, la felicità della condivisione intima sono abbagli prima della ricaduta nel buio, nella solitudine inaggirabile, nell’abbandono totale a cui è lasciato l’uomo. Essere insieme è un’illusione, com’è illusorio lo stesso concetto di identità, punto artefatto, incrocio di più pulsioni e miriadi di influenze esterne. Una fitta costruzione del tutto finzionale, in altre parole, un ruolo – per un film dove il rimando al palco teatrale è continuo, attraverso una scenografia da cinema da camera, ma anche a disparate entrate in scena dei personaggi in ripresa frontale, da una porta, che inevitabilmente ricordano l’entrata in scena teatrale, e così anche la presena di tende, talvolta aperte, talvolta chiuse, che ricordano il sipario.
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Bergman elabora inoltre proprio la natura “liquida” dell’io in una serie di soluzioni formali ormai divenute iconiche, la fusione delle silhouette di Alma e Elisabet, o tra tutte la giustapposizione in primo piano frontale di una metà del volto di Elisabeth con l’altra metà del volto di Alma, una sconcertante simmetria, l’incubo del rispecchiamento, della parte di sé non voluta, ma rivelata. L’io sconfina dal controllo di chi lo edifica, e il regista esplora sia la variazione positiva, avvertimento (temporaneo) di una comunione a due, sia invece la variante repulsiva, dove il riconoscere sé stessi nel volto altrui, in quanto corrotti, freddi, indifferenti e con pulsioni distruttive, è orrore.
Appena soltanto si puntella la propria immagine di sé, fuoriesce una miriade di incertezze minatorie, di memorie, di fulminee immagini pulsionali altamente distruttive. Si scoperchia la violenza umana, sia spirituale che fisica: questo è il senso, ad esempio, delle sporadiche immagini inflitte allo sguardo inquieto di Elisabet, cioè quelle di un notiziario che trasmette un servizio sulla guerra in Vietnam, dove un monaco si dà fuoco, e la contemplazione di una foto di un bambino e di un gruppo di ebrei durante la deportazione nazista. La violenza nel domestico ha la stessa sostanza della violenza nel collettivo pubblico. Da una parte c’è la violenza spirituale che si consuma tra le quattro mura della casa al mare, non solo nel tradimento percepito da Alma verso Elisabet, che accenna in una lettera alla psichiatra a una confessione privata, ma anche la costante violazione più sottile che intercorre tra Alma ed Elisabet, dove fare male a una è come fare male a sé stessa, come vedersi un coltello ritorto verso di sé. È la stessa natura dei rapporti umani, con allusioni simboliche (e probabilmente oniriche) al vampirismo. Ma questi non fanno che rispecchiare a loro volta la stessa auto-distruttività dell’uomo, nella sua ingabbiata condizione esistenziale, cognitiva. Lo stesso atto di voler conoscere, scandagliarsi o scandagliare l’altro, è un atto che porta alla distruzione; ed essendo Persona leggibile anche come rappresentazione coscienziale, Bergman attua la soluzione di mostrare un accartocciamento della pellicola stessa nel momento di più alta crisi personale, cognitiva di Alma.
La disperazione, l’angoscia strutturale all’individuo sono il frammento di un più ampio mosaico di angoscia generalizzata, assai sentita nei cocenti conflitti che erano in corso nella seconda metà degli anni Sessanta. La sola immagine televisiva, medialità della crudità del conflitto, ferisce l’occhio di Elisabet.
Qui si presta il senso di maschera dato da Carl Justav Jung, cioè un’immagine pubblica che l’individuo proietta per proteggersi da sé stesso, dall’alta concentrazioni conflittuale, violenta intensiva al di là del suo recinto. È ciò che fa Alma, nei suoi attacchi logorroici di interpretazione di sé, arma a doppio taglio, ma anche Elisabet, che si scherma a sua volta nel marmoreo rifiuto della parola. In questo contesto assume un primo senso la sequenza iniziale del film, una serie di immagini dal montaggio rapidissimo, di carattere violento, sessuale, come una serie di lampi del subconscio, che pian piano si rallenta e si stabilizza e dà luce a una narrazione ordinata, dunque ad una costruzione finzionale – che è lo stesso cinema. Il piano psicologico, spirituale e meta-cinematografico sono altamente intrecciati in Persona.
Il connotato veramente innovativo e radicale di Persona infatti è in significativa parte proprio nella sua auto-referenzialità. Il film è disseminato di allusioni ad altri film dello stesso regista – a partire dai singoli frame della rapida sequenza iniziale, ad esempio il ragno già presente nel concetto del Dio-ragno di Attraverso lo specchio e Luci d’inverno. Così anche il cognome di Elisabet, Vogler, è lo stesso del personaggio dell’illusionista de Il volto. Persona si inserisce nel cinema moderno, nell’influsso rielaborato da Godard, per la decisiva affermazione – contro il criterio di invisibilità classico usato per favorire l’immersione nella storia – del film come film, non come aderenza invisibile e realistica al raccontato. Attraverso lo stesso primo ed ultimo frame di Persona, che è di una pellicola, e del montaggio di fotogrammi sopracitato che ne segue e può alludere alle immagini disparate dello stesso regista nell’avvio del processo creativo, prima di tutta la sequenza centrale su Elisabet e Alma, e poi nella sua chiusura. Persona sparisce letteralmente con la sua stessa fine, lasciando dietro di sé il buio. La scena a sé stante del bambino, in un set dal biancore indeterminato, con presente un lettino e uno schermo (forse è un’obitorio), che attraverso il tocco della sua mano sui volti alternati e indistinguibili di Alma ed Elisabet, è stata interpretata in numerose maniere. Considerando l’importanza del tema della maternità, di una relazionalità umana alla deriva, dove vige l’incomunicabilità a dispetto di qualsiasi tentativo in senso opposto, il bimbo può essere il figlio respinto sia da Alma che da Elisabet, una mano tesa verso una madre che non è disposta a prenderla. Ha una lettura anche psicanalitica, dal fondo di impressioni infantili ne viene tutto il mondo pulsionale umano adulto, e così anche della creazione artistica che se ne origina. E inevitabilmente una lettura meta-cinematografica: dove il bambino è fautore della macchina del sogno che è lo stesso cinema, attraverso il suo tocco sullo schermo.
E Persona, dunque, ha i contorni del sogno, è forse la proiezione di qualche coscienza, che sia quella del regista, di uno dei personaggi. Ed è un’affermazione in linea con lo statuto raggiunto dall’arte cinematografica in era moderna: l’impossibilità di distinguere il vero dal falso, non soltanto in ambito psicologico, identitario, ma anche sul piano di che cos’è finzione nel racconto e che cos’è realtà. L’arte è una rete di illusioni tanto quanto la realtà. Bergman adotta varie ellissi, dislocazioni spazio-temporali che non permettono di stabilire con certezza cosa sia avvenuto e cosa non lo sia, così come la performance attoriale smussa i confini dell’autentico e dell’artefatto.