Non sappiamo come sarà il mondo post-coronavirus, ma è facile prevedere che più di una cosa cambierà. Già adesso si avverte un sentore di crisi, che sia quella economica causata dalle misure drastiche messe in atto o del dilemma morale tra libertà personale ed efficienza che stanno affrontando molte democrazie occidentali. Fa quasi impressione pensare che qualcosa di così microscopico come un virus possa aver avuto conseguenze così pesanti su scala globale. Il coronavirus non si è solo diffuso tra i corpi degli ammalati, ma si è innervato molto più a fondo, all’interno dello strato sociale, economico, politico delle nazioni di tutto il pianeta. La capillarità con cui è avvenuta questa diffusione ci pone di fronte all’urgenza di ripensare alla nascita della società interconnessa, della globalizzazione, dei sistemi economici che sono nati quasi per caso e che determinano le vite di ognuno. Il che equivale a chiedersi: ma quand’è che è diventato tutto così intricato? Da dove è partito quel bisogno di legare assieme tutti i nodi in un’unica rete? Ed è proprio questa la parola, diventata quasi magica, da cui possiamo partire: l’avvento di internet, e prima ancora la diffusione del computer come strumento per calcolare, semplificare, comprendere la realtà. Il risultato è stato un mondo iperconesso, dove da ogni nodo si dipanano miliardi di invisibili fili che collegano tutti gli altri nodi; un mondo più efficiente, più rapido, ma anche più esposto a organismi in grado di sfruttare la capillarità come il SARS-CoV-2. Districarsi in questa matassa significa, tra le altre cose, comprendere la duplice relazione di causa ed effetto che lega il dilagare del coronavirus con la tecnologia che ci permette di affrontare l’emergenza.
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Dall’universo meccanico alle previsioni del tempo
Agli esseri umani sono sempre piaciute le connessioni lineari. Pensare alla realtà come un sistema meccanico, fatto di tanti ingranaggi analizzabili singolarmente, ci rassicura, ci fa sentire meno impotenti di fronte agli eventi. È un retaggio della fisica classica, quella elaborata nel XVII secolo da Galileo e Newton, che partiva da un assunto molto chiaro: era sufficiente tradurre in termini matematici tutte le variabili disponibili e diventava possibile calcolare lo sviluppo di qualsiasi sistema, andando ben oltre il reame della fisica. La figura che riassume questa mentalità è il famoso demone di Laplace, un’entità fittizia che, idealmente, sarebbe in grado di conoscere tutte le variabili dell’universo nel tempo presente e dunque calcolare qualsiasi stato futuro o passato del mondo. Si trattava di una scienza fisica esageratamente ottimista, ma che aveva colto sicuramente un punto importante: se il futuro è incerto è solo perché non si hanno abbastanza elementi per conoscerlo. Prevedere equivale, in qualche modo, a calcolare.
Poi subentrarono la termodinamica, la meccanica quantistica e la teoria della relatività ideata da Albert Einstein. La fisica moderna aprì le porte alla statistica, nata appositamente per calcolare il grado di probabilità, consci che una certezza non poteva esistere. Di fronte a questa complessità non era possibile fare altro che arrendersi, fino a quando non sopravvenne uno strumento nuovo: il calcolatore elettronico. Il pensiero computazionale somiglia in maniera sorprendente ai propositi della fisica classica, ma è più consapevole della realtà esterna: se il mondo è complesso, semplificalo in un linguaggio formale e poi lascia al computer il compito di calcolare. Pensiamo a qualcosa di relativamente banale come le previsioni meteo, qualcosa di così radicato nell’immaginario collettivo odierno che non potremmo neanche comprendere come si possa vivere senza. L’idea di studiare i valori dell’atmosfera per prevedere il clima nasce all’inizio del Novecento con i lavori del matematico Lewis Fry Richardson, prevalentemente per scopi militari (un temporale strategicamente piazzato può fare più danni di una testata esplosiva). Nonostante fin da subito si comprendano piuttosto chiaramente in che modo fosse possibile prevedere l’andamento meteorologico, le variabili da tenere in considerazione e i calcoli da svolgere erano esageratamente complessi per lo sforzo umano. Per prevedere un cambiamento climatico nell’arco di sei ore servivano approssimativamente sei settimane di calcolo: un lavoro non solo mastodontico, ma pragmaticamente inutile.
Solo l’avvento dei primi computer (non a caso, un’altra tecnologia ideata a scopo militare) permise alla meteorologia di diventare una vera e propria scienza, e con l’aumentare della potenza di calcolo e la costante riduzione dei costi, le previsioni del tempo divennero il fenomeno popolare che conosciamo. La famosa legge di Moore, nella sua versione odierna, ci spiega la crescita costante della capacità di calcolo. Questa, assieme alla quantità di dati che siamo in gradi di raccogliere, oggi permette di avere previsioni affidabili in tempo reale anche nel lungo periodo, qualcosa che Lewis Fry Richardson non avrebbe neppure potuto sognare. Decidere di prendere l’ombrello prima di uscire di casa affidandosi alle proprie app meteorologiche ci sembra una cosa tanto banale, ma dietro di sé nasconde un sistema di elaborazione dati di una complessità inimmaginabile per i non addetti ai lavori. Se questo è vero per cose tanto semplici come le previsioni del tempo, figuriamoci cosa dovremmo dire ora che intelligenza artificiale e machine learning sono presenti nella stragrande maggioranza di attività quotidiane, dalle consegne a domicilio di Just Eat e Amazon, fino ad arrivare a controllare la ricerca scientifica e il mercato finanziario.
Anche la medicina sta radicalmente cambiando sulla base di questi sistemi. La medicina di precisione promette di passare da una strategia curativa a una strategia preventiva, imparando a studiare il corredo genetico del singolo paziente per sviluppare diagnosi e terapie su misura. Un altro caso indiscutibile ce lo fornisce palesemente l’epidemiologia: grazie alla raccolta di dati sullo spostamento di milioni di persone è possibile prevedere la diffusione di malattie. Lo spiega molto bene Alessandro Vespignani, epidemiologo computazionale e direttore del Network Science Institute dell’Università di Boston. Lui e il suo team di ricerca avevano già imparato l’aiuto prezioso del machine learning e dei big data durante l’epidemia di Ebola del 2014. Leggendo i dati dei social network e integrandoli con i sistemi di tracciamento digitale è possibile ottenere modelli virtuali molto accurati. L’apice di questo metodo è stato raggiunto da paesi come la Cina e la Sud Corea, che non si pongono molti problemi a sacrificare la privacy individuale in nome dell’efficienza (e sembra che l’Italia stia pensando se seguire o meno la stessa linea).
Scatole nere sotto l’oceano
Tutto ciò non sarebbe possibile se non fosse emerso già da qualche anno un vero e proprio mercato dei dati digitali. Compagnie come Facebook, Google, Spotify sono in grado di offrire gratuitamente i loro servizi principali perché hanno capito che la vera valuta del XXI non sono i contanti, bensì i dati degli utenti. Ogni singolo click sul motore di ricerca viene conservato e registrato, incrociato con miliardi di altri click eseguiti da utenti di tutto il mondo e dati in pasto a elaborati algoritmi in grado di tirare fuori le nostre abitudini, tendenze e in generale prevedere i nostri gusti. Ciò offre una vantaggio economico non indifferente, permettendo di offrire un certo prodotto al cliente più propenso all’acquisto. Se in Europa si sta cominciando ad avvertire l’urgenza di una regolamentazione, nel resto del mondo le cose non sono ancora così chiare e la compravendita di dati sensibili si muove in un pericoloso mercato grigio.
Questa situazione emergenziale sta facendo affiorare tutti i limiti e le contraddizioni di una società che si autoalimenta dei suoi stessi bisogni. Internet forse non collasserà, ma se perfino colossi come Netflix e YouTube sono stati costretti a abbassare la qualità dei loro servizi forse qualcosa si è rotto nell’incantesimo del tardo capitalismo. Perfino Mark Zuckerberg si è dimostrato preoccupato per come questa epidemia sta mettendo a dura prova le infrastrutture esistenti. Dall’altra parte questa complessità viene mascherata dalla relativa semplicità dei dispositivi che utilizziamo ogni giorno, venduti più come strumenti magici, intoccabili. Se fino a prima potevamo continuare a credere che internet fosse un’entità eterea sempre disponibile per soddisfare i nostri bisogni, adesso ci rendiamo conto che le cose non stanno così. Dobbiamo prendere atto che tutti servizi di cui disponiamo sono fondati su infrastrutture fisiche, enormi cavi posati sul fondo degli oceani, reti di fibra ottica che si diramano sotto le città e soprattutto enormi data center che consumano tonnellate di energia e producono ingenti quantità di CO2. L’invisibilità della rete è il primo elemento che contribuisce alla sua opacità.
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L’informatica può essere sfruttata per nascondere la complessità del mondo, ma è la stessa tecnologia che contribuisce a rendere il sistema una rete costantemente interconnessa. Ed è proprio questo sistema reticolare che pone le basi per una diffusione epidemica come quella a cui stiamo assistendo. Come argomenta la virologa Ilaria Capua è la velocità stessa del sistema ad aver accelerato il contagio, creando più danni di quelli che era in grado di contenere. In un mondo non globalizzato il coronavirus sarebbe potuto rimanere un’infezione locale, e invece è diventata una pandemia. Se vogliamo capire il nostro mondo dobbiamo capire queste tecnologie. Altrimenti il rischio è di trovarci in una nuova era oscura, come teorizzato dal filosofo James Bridle: un nuovo medioevo, governato da chi è in grado di gestire a proprio piacimento il fluire dell’informazione. Fake news, teorie del complotto e populismo sono anche uno degli effetti dell’opacità del sistema. Cosa sono i complotti se non semplificazioni di scenari complessi, con l’aggiunta di un po’ di malafede? Fenomeni culturali, sociali, economici, politici hanno sempre delle cause e degli effetti multifattoriali; individuare invece una singola causa è molto più semplice, anche se profondamente sbagliato. Così è più facile dare la colpa ai migranti se l’economia rallenta, o negare il cambiamento climatico guardando alle temperature fuori casa, mentre nel bel mezzo di un’epidemia sbucano da ogni dove finti trattamenti e bufale di vario genere. Non sappiamo come cambierà il mondo finita questa emergenza, ma il primo antidoto contro vecchi e nuovi mali è senza dubbio una seria presa di coscienza della complessità che ci circonda.