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La parabola del figliol prodigo, l’educazione come cammino attraverso la vita

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Marco Capriglio

La parabola del figliol prodigo, chiamata anche “parabola del figlio perso e ritrovato” oppure “parabola del padre misericordioso”, è una delle più celebri parabole di Gesù. Viene raccontata nel Vangelo secondo Luca (15, 11-32) e narra di un uomo benestante con due figli ai quali non manca nulla: nonostante ciò, il figlio minore pretende la sua parte di eredità e si allontana dalla casa paterna. Dopo aver finito il denaro e aver lavorato come mandriano di maiali per vivere,  il secondogenito ritorna a casa e il padre per festeggiarne il ritorno uccide il vitello più grasso in suo possesso. Il padre, sul finale, si rivolge così al fratello maggiore: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

Nella lettura cristiana della parabola, il padre è una figura del tutto positiva e assimilabile al Padre Celeste, il figlio minore è un peccatore pentito e in quanto tale presenta luci e ombre, mentre il figlio maggiore è un personaggio del tutto negativo che rifiuta il pentimento del fratello. La morale cristiana della parabola può infatti essere rintracciata nell’abbraccio finale tra il padre e il figlio ritornato, simbolo di un grande amore, del perdono e della riconciliazione. Si osservare anche, però, come tale parabola possa anche essere detta della «madre assente», e di un padre che ha caratteri sia maschili che femminili, dotato di amore materno. Quest’ultimo aspetto è stato sottolineato anche da Rembrandt nel dipinto Il ritorno del figliol prodigo (1669), nel quale il padre ha una mano dai tratti maschili e una dai tratti femminili.

Il ritorno del figliol prodigo, Rembrandt, 1669.

La lettura pedagogica

Quella che presentiamo qui è un’ originale interpretazione in chiave pedagogica della parabola del figliol prodigo. contenuta nel volume Il figliol prodigo. Parabola dell’educazione, di Fulvio De Giorgi, edito nel 2018 dalla Editrice Morcelliana di Brescia. Se il significato teologico-spirituale è indubbiamente chiaro, lo stesso non si può dire per quello educativo. Il padre della parabola non assomiglia ad un padre umano, ma ad un Padre Divino: se Dio concede la libertà agli uomini, questa non è presupposta in una azione educativa. La libertà non è uno strumento educativo, ma è una meta da perseguire, in termini di autonomia dell’educando.

Sul piano educativo, i tre personaggi della parabola non hanno lo stesso valore. Il padre ha la responsabilità educativa dei figli e, almeno inizialmente, si trova di fronte ad un fallimento. Inoltre, come già osservato, appare evidente l’assenza della madre, assenza del tutto necessaria ai fini della Parabola. Nel racconto mancano la dimensione affettiva, di protezione e del nutrimento del cuore. Nello svolgimento della parabola, emergono tre paradigmi educativi: l’educazione autoritaria, l’educazione libertaria e l’educazione liberatrice.

Educazione autoritaria

l primo paradigma, quello dell’educazione autoritaria, è ispirato al Libro della Siracide (Sir 3, 3-7) e interpreta le figure genitoriali come veri e propri padroni. È il paradigma della legge, con al centro il padre-educatore e i suoi valori, dove il dialogo tra padri e figli non è contemplato. Il padre della parabola vede questo modello come l’unico in grado di offrire certezze e sicurezze. Lo stesso, tuttavia, non accade per il figlio minore, che si ribella. Egli chiede la propria parte di eredità, la ottiene e rompe il legame con la sua vecchia vita, allontanandosi. Il padre però, in antitesi con il paradigma educativo adottato, non si oppone, ma consegna la parte al figlio e tace. Quello messo in scena è un vero e proprio distacco e la libertà lasciata dal padre può vedersi quasi come un abbandono: il figlio minore diventa «figlio dell’abbandono». La svolta della parabola si ha nel momento del ritorno del figlio minore a casa, sconfitto dalla fame e dalla povertà. Egli compie un cammino di redenzione e torna a casa maturo. Lungo la via pensa alle parole da dire al padre: «Padre ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati».

Il ritorno del figliol prodigo, Guercino, 1619.

Educazione libertaria

Il secondo paradigma è quello dell’educazione libertaria: è il paradigma del desiderio, incentrato sul soggetto da educare, che lascia tutto in mano alla natura. In esso, tuttavia, mancano le norme. Il padre si commuove di fronte al ritorno del figlio. Egli è finalmente libero dal pensiero della morte del secondogenito e dal pensiero di esserne in qualche modo responsabile. Al rientro del figliol prodigo il padre vuole dare una festa: uccide il vitello grasso, simbolo di sicurezza in un periodo di carestia. Si nota proprio in questo frangente il cambiamento della figura paterna e il passaggio da una pedagogia autoritaria a una libertaria, permissiva e a tratti iperprotettiva. Si giunge così all’ultimo paradigma educativo presente nella parabola: quello dell’educazione liberatrice. È il paradigma del dialogo aperto e della relazione, dell’autorità che non opprime, ma che aiuta ad essere consapevoli e a giungere alla libertà.

Educazione liberatrice

Il figlio maggiore viene a sapere da un servo che il fratello minore è tornato, e che il padre sta festeggiando. Egli si sente tradito dal modello educativo del padre. Vi è qui un parallelismo con la prima scena, quella del padre che si sente tradito dal figlio minore. Ora è il primogenito che diviene «figlio dell’abbandono». Il figlio maggiore, non partecipando alla festa, insulta pubblicamente il padre. Questo evento ha un’importante valenza pedagogica, poiché mette in luce il fatto che l’educazione è un fatto privato, familiare, e pubblico.

La festa è iniziata, ma non può finire senza il figlio maggiore. Il padre va a chiamarlo, e con un residuo del secondo paradigma, lo incoraggia amichevolmente a prendere parte ai festeggiamenti. Il fratello maggiore, parlando con il padre, si riferisce al fratello minore chiamandolo «tuo figlio», facendo emergere la gelosia, il rifiuto della paternità e della fraternità, con la volontà di inchiodare il padre alle responsabilità educative.  Il figlio maggiore vorrebbe solo un rovesciamento del rovesciamento, ovvero che il padre tornasse alla vita precedente. Qui vi è il nuovo cambiamento di paradigma pedagogico: il padre vuole liberare il primogenito dagli schemi ormai passati, con una forza riconciliatrice verso il fratello. «Bisognava far festa» è il compimento della parabola: una festa educativa atta a risanare le ferite di una famiglia, una festa di una vita ritrovata.

«L’educazione non è forse, comunque, un cammino?»

La parabola tuttavia non ha una fine vera e propria. Che cosa farà il fratello maggiore? La risposta alla domanda spetta al lettore.
La parabola del figliol prodigo diventa allora una metafora dell’educazione: Gesù, con il suo racconto, ha offerto un modello di educazione che muta continuamente, e che coinvolge sia l’educatore che l’educando.

Il figliol prodigo, Giorgio De Chirico, 1922

De Giorgi, in questo senso, chiude la sua opera con una domanda provocatoria: «L’educazione non è forse, comunque, un cammino?». Questa nuova ed interessante lettura della parabola è indirizzata alle figure professionali che operano in campo educativo come educatori, insegnanti e pedagogisti, ma anche ai genitori, poiché l’educazione è proprio un lungo cammino, che dura tutta la vita e che si deve adattare al cambiamento. L’educazione è un fatto che tocca e si intreccia nelle vicende di ciascuno, essendo tutti educandi ed educatori a seconda delle età e delle necessità della vita. 

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Marco Capriglio

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