Ogni anno, migliaia di persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e intersessuali (che fanno riferimento all’acronimo LGBTI) richiedono asilo in Europa. La comunità LGBTI nel mondo s’impegna ogni giorno per informare delle condizioni cui queste persone sono sottoposte laddove la libertà sessuale, e di genere, non è ancora istituzionalmente garantita.
Generalmente, si pensa che essere parte della comunità LGBTI possa assicurare l’accesso alla protezione internazionale, ma non sempre è così. Dal momento in cui l’Unione Europea ha siglato il trattato di Dublino, l’armonizzazione delle pratiche di asilo non è mai stata raggiunta. Ecco perché tra i migranti LGBTI ci sono sì richiedenti asilo, ma anche migranti economici, migranti interni e ricongiungimenti familiari. Ognuno di essi ha una storia diversa, e un percorso migratorio difficile da raccontare, a volte da comprendere.
Secondo l’associazione ILGA – International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association – nel mondo l’omosessualità è criminalizzata in settantasei Paesi, di cui trentadue solo nel continente africano. È essenziale capire, in questo contesto, quali sono i Paesi africani che criminalizzano l’omosessualità? E quali sono le possibilità che le persone LGBTI hanno di ricevere asilo in Europa? Infine, è necessario indicare le motivazioni alla base dell’omofobia e della transfobia in Africa, per comprendere appieno ciò che spinge queste persone a lasciare la propria casa.
L’omosessualità in Africa
Tra tutti gli Stati africani, solo il Sudafrica riconosce costituzionalmente l’unione in matrimonio tra persone dello stesso sesso. D’altro canto, la discriminazione verso le persone LGBTI è all’ordine del giorno, persino in quei Paesi dove la legislazione in materia di rapporti omosessuali, e consensuali, è all’avanguardia. Su cinquantaquattro Paesi africani, solo ventuno riconoscono la legalità di questi rapporti.
Nel gennaio 2019, l’Angola ha legalizzato l’omosessualità, creando al contempo una legge atta a impedire le discriminazioni. Questa decisione ha fatto seguito ad altre, molto importanti per la comunità LGBTI nel continente. Il 17 maggio 2016, l’Assemblea Nazionale delle Seychelles ha adottato un emendamento al codice penale, depenalizzando l’omosessualità. Nel 2015, il Mozambico aveva fatto lo stesso. Più recentemente, in Botswana, la comunità LGBTI ha festeggiato una decisione storica della Corte Suprema. L’11 giugno 2019, è stata ordinata l’annullazione di alcuni articoli del codice penale, un insieme di leggi che era in vigore dal 1965, retaggio dell’antico Impero britannico. Prima di questo importante risultato, il solo essere scoperti in atti intimi con una persona dello stesso sesso poteva coincidere con una pena molto severa, fino a sette anni di prigione.
La comunità LGBTI africana deve però far fronte alla realtà che non tutto il continente viaggia alla stessa velocità: il Gabon ha reso illegale l’omosessualità il 5 luglio 2019. In Ciad, prima del 2017, l’omosessualità non era considerata un reato. Ora, è punita con la prigione, dai tre mesi ai due anni. In Uganda, Tanzania, Gambia e Zambia la pena massima può contemplare l’imprigionamento a vita, mentre in Sudan e in Somalia è in vigore la pena di morte. In Kenya, nel maggio del 2019, la criminalizzazione dell’omosessualità è stata riaffermata dalla Corte Suprema del Paese, dove è punita con quattordici anni di prigione. La Nigeria prevede la stessa pena, un crimine istituito solo nel 2014. Ciò non toglie che, nelle regioni del Paese in cui è in vigore la legge islamica (la Chāria), la lapidazione in pubblica piazza si sostituisce all’imprigionamento.
La Chāria si applica anche al territorio della Mauritania, dove la lapidazione avviene per punire gli uomini colpevoli di “atti contro natura”. Le donne, invece, rischiano dai tre mesi ai due anni di carcere. È interessante osservare come le donne omosessuali abbiano un trattamento diverso in molti Paesi, uno su tutti il Ghana. In questa vecchia colonia britannica, l’omosessualità è un reato per gli uomini, mentre è tollerato per le donne. Stesso discorso per Sierra Leone, Namibia, Swaziland e Zimbabwe, dove solo gli uomini sono puniti per il loro orientamento sessuale. In Namibia, le persone transgender hanno la possibilità di cambiare sesso, qualora ne facciano richiesta. Nel Sudan, la pena di morte è applicata in modo diverso a seconda del sesso dell’imputato: per le donne i primi tre rapporti omosessuali sono puniti con cento frustate, e solo dal quarto è possibile applicare la sentenza piena.
Un sistema complesso nella sua totalità, e straripante d’ipocrisie. In alcuni Paesi dove l’omosessualità non è reato, la maggiore età differisce secondo l’orientamento sessuale. È il caso del Benin, del Niger e del Madagascar. In quest’ultimo, ogni rapporto omosessuale tra persone con meno di ventuno anni, è punito dalla legge. In Mali, dove l’omosessualità è legale per l’ordinamento giuridico, ogni atto intimo tra persone dello stesso sesso è socialmente malvisto. Ciò incide maggiormente sulle discriminazioni verso le persone LGBTI. Anche in quei Paesi in cui l’omosessualità è legale, privati cittadini, gruppi religiosi, e le stesse forze dell’ordine sono fonti di discriminazioni. Nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) l’omosessualità è legale perché non menzionata nel codice penale, ma l’articolo 172 prevede l’imprigionamento per “atti contro natura”, una falla che lascia libera interpretazione alle autorità locali.
È difficile anche immaginare quanto possa essere complicato per una persona omosessuale, o transessuale, vivere in Paesi così distanti da noi in materia di diritti. Eppure, anche sulle sponde del Mar Mediterraneo, così vicino a noi, i Paesi del Maghreb Arabo criminalizzano l’omosessualità. In Tunisia, Algeria e Marocco ogni rapporto sessuale con l’altro sesso è punito con il carcere fino ai sei anni. In Egitto, nessuna legge fa particolare riferimento all’orientamento sessuale, ma gli arresti avvengono sulla base dell’accusa di fornicazione al di fuori del matrimonio, o per insulto alla religione.
La protezione internazionale per i rifugiati LGBTI
Gli articoli 1 e 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani specificano che ogni essere umano è nato libero ed eguale in diritti e dignità, e che tutti debbano essere beneficiari dei diritti e della libertà stabiliti da tale dichiarazione. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), nei primi anni duemila, formula delle linee guida nel tentativo di applicare la Convenzione di Ginevra (1951) per i rifugiati LGBTI. Questo poiché essa non contemplava l’orientamento sessuale o l’identità di genere come categorie per cui fare richiesta di protezione internazionale.
Come già detto, il problema non è ancora analizzato e interpretato allo stesso modo in tutti i Paesi europei, una divergenza che rischia di coltivare un vizio pericoloso per i diritti umani all’interno dell’Unione. Non solo, la disarmonia delle pratiche di asilo crea una difficoltà sostanziale di raccolta dati. Secondo delle stime, le domande annuali di tutti i rifugiati LGBTI in Europa superano le diecimila unità. Dopo aver depositato una domanda di protezione internazionale, è necessaria la dimostrazione di un fondato timore di persecuzione nel caso in cui il rifugiato facesse ritorno nel Paese d’origine. Infatti, alcuni Paesi africani tendono a non applicare le proprie leggi in maniera sistematica. Il Marocco, per esempio, sceglie deliberatamente di non sanzionare gli atti omosessuali nelle località più turistiche.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (a differenza della Corte di Cassazione italiana) è convinta che nel caso in cui venga meno il principio di sistematicità della legislazione criminalizzante, venga meno anche il diritto alla protezione umanitaria. Inoltre, alcuni Paesi anglosassoni hanno respinto dei rifugiati LGBTI perché avrebbero potuto nascondere la propria identità nel Paese d’origine e non venire perseguitati. Un approccio illiberale che l’UNHCR ha condannato duramente.
A disumanizzare ulteriormente il processo, la credibilità della persona LGBTI è accertata dai funzionari delle commissioni territoriali che ne valutano la pratica d’asilo. Molto spesso, tale attendibilità è viziata da pregiudizi e stereotipi interiorizzati riguardo alle persone LGBTI. Credere che un atteggiamento femminile in un uomo (o mascolino in una donna) possa fornire prova dell’effettiva omosessualità del soggetto è credere che tutte le persone omosessuali siano uguali, che tutte si comportino allo stesso modo. È negare, per esempio, che una donna omosessuale possa aver sposato un uomo solo per fuggire dalla discriminazione nel proprio Paese. È reiterare l’idea che una persona lesbica o gay esista solo nell’idea che un eterosessuale si è fatto di loro, in certi casi riflettendo forme di omofobia, e transfobia, simili a quelle da cui la persona fugge.
L’omofobia e la transfobia sono retaggi coloniali
L’omosessualità, in Africa come nel resto del mondo, è sempre esistita. Il numero molto ridotto di pubblicazioni scientifiche sulla sessualità nel suo insieme, ha portato persino a dubitare che l’omosessualità sia mai esistita nel continente. Mentre gli africani, di ieri e di oggi, si sono così poco interrogati sulle questioni legate alla sessualità, non fu lo stesso per gli esploratori missionari e per i primi antropologi occidentali. La visione degli indigeni, descritti al contempo come naïf e perversi, non ha mai restituito un quadro coerente e veritiero della sessualità in Africa. Dal XVIII secolo l’omosessualità fu ritenuta sconosciuta al retaggio africano, fino al punto da incolpare l’influenza coloniale per la nascita di certi “vizi”.
Nonostante questo, è stato dimostrato che nel linguaggio dei popoli africani le parole e le espressioni riguardanti le pratiche omosessuali sono sempre esistite. Nel XVI secolo, il popolo Imbangala dell’Angola «teneva uomini in veste da donna tra le proprie mogli». Nello stesso momento, Enrico VIII firmava in Inghilterra il Buggery Act (1533), che criminalizzava il sesso tra due uomini. Gli ultimi uomini a essere impiccati per atti omosessuali in Inghilterra lo furono nel 1835. Nel mentre, il re Mwanga II di Buganda (l’attuale Uganda) si opponeva ai cristiani che volevano convertire gli uomini del suo harem.
La colonizzazione del continente africano da parte delle potenze occidentali, insieme al fondamentalismo cristiano, cambiò radicalmente il sistema di valori su cui si basava la cultura africana. L’adozione del codice penale europeo criminalizzò l’omosessualità, e la bibbia divenne il nucleo della nuova moralità africana. Così, ogni sensibilità verso l’orientamento sessuale e l’identità di genere andò perduta. Nell’Africa post-coloniale dei nostri giorni, l’autorità di alcuni gruppi evangelici americani sta crescendo sempre di più. I finanziamenti dei cristiano-conservatori vanno a foraggiare direttamente le campagne anti-LGBTI in tutto il continente, esattamente come accadeva nell’era coloniale ma con nuovi mezzi.
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L’omofobia è uno di questi, grazie al quale si genera supporto a politici e leader religiosi, molto influenti. Il lavoro delle comunità LGBTI locali nel contrastare le discriminazioni è stato fondamentale, e lo sarà ancora. Tuttavia, è necessario supportare ogni rivendicazione LGBTI globalmente, lottando contro ogni violenza di genere in modo strutturale. Fino a quel momento, bisogna prendere coscienza che dall’Africa si fugge, e si continuerà a farlo.