La sfida al coronavirus si avvia verso il secondo atto. Ripartire, riaprire, ricominciare. La fase due è sul tavolo delle trattative del governo, ma non lascia troppo spazio alla fretta e all’ottimismo. L’andamento della curva epidemica chiede pazienza. Riaprire, sì, ma in modo graduale. L’ipotesi è che dal 4 maggio riaprano le aziende, poi i negozi, i bar, i ristoranti, i parchi e infine i luoghi per le attività artistiche e di intrattenimento, come cinema e teatri. I cittadini non lavoratori potranno uscire di casa nel corso del mese di maggio, a seconda delle fasce d’età.
Uno scenario che dopo più di un mese di lockdown può quasi sembrare il frutto di una decisione avventata e pericolosa. Chiudere tutto e tutti nella più o meno confortante quotidianità della propria casa è stato necessario per evitare una strage, ma arriva il punto in cui riconoscere la realtà diventa un principio sacro. È ancora questa la soluzione che salverà più vite?
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Fino ad ora il governo italiano, così come gli altri governi del mondo – anche se alcuni con più indugi, si pensi alla Francia, agli Stati Uniti, o al Regno Unito – hanno messo la vita umana prima di ogni altra cinica considerazione. Restare a casa era l’unica opzione disponibile per evitare un’ulteriore impennata dei contagi e il collasso del sistema sanitario, anche a costo di pagarne in seguito i danni. Come a dire, la vita umana non ha prezzo, ogni persona in ospedale va curata ad ogni costo, ogni persona sana va tenuta lontana da ogni rischio, i conti si faranno dopo. Quando il dopo si può intravedere, però, bisogna caricarsi dello scomodo compito di farsi domande terribili, ma plausibili. Se lo chiede anche il The Economist: fino a quando potremo permetterci di dire che una vita umana non ha prezzo?
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È meglio aspettare, ritardare la ripresa fin quando non avremo l’indice di contagio pari a zero? Partiamo da questo presupposto: ogni giorno che passa ha un costo economico e sociale che aumenta esponenzialmente.
«L’epidemia da Covid-19 e la successiva chiusura di numerose attività commerciali e produttive sta causando un forte calo dei flussi di cassa in entrate nelle imprese», rivela lo studio di Banca d’Italia sui problemi della ripresa economica in seguito all’emergenza, «l’attuale stallo delle attività economiche si accompagna ad una significativa perdita di ricavi che in futuro verrà solo in parte recuperata».
Contestualizzare questi dati nel già precario equilibrio economico italiano rende la fase 2 ancora più plausibile, se non inevitabile. L’Italia non è l’America: se il lockdown ha rallentato la diffusione del contagio, il colpo, tragicamente, potrebbe arrivare da un’altra direzione. Con qualche tentennamento, il presidente Trump ha preso la non difficile decisione di chiudere tutto e mettere sul piatto un piano di sostegno da 2000 miliardi di dollari. Lo stesso non può permettersi l’Italia, che nonostante il decreto Cura Italia, sa che la ripresa sarà dura e peserà sulle spalle di chi soffriva delle carenze economiche del Paese già prima dello tsunami coronavirus: i lavoratori che hanno perso il posto e i giovani che dovranno pagare tutto il debito che lo Stato sta accumulando. Le conseguenze di una depressione economica possono essere altrettanto devastanti, nonostante non si manifestino nel breve periodo come quelle del coronavirus. Per questo dobbiamo essere pronti a considerare l’ipotesi che il costo della reclusione casalinga potrebbe superare i benefici.
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Il primo a proporre la riapertura è stato Matteo Renzi, ricoperto da una valanga di no da ogni latitudine politica. La proposta premeva l’acceleratore verso i primi di aprile, ma i ponti critici di Pasqua, Liberazione e Primo Maggio hanno aizzato il clima generale di paura di mettere il piede fuori casa per evitare la creazione di nuovi focolai.
Resta cauto Luigi Di Maio, che sui propri social personali commenta: «La priorità è la vita. Servono prudenza e cautela. Bisogna ripartire, ma senza vanificare gli sforzi compiuti».
Mentre Walter Ricciardi, del comitato esecutivo dell’Oms e consulente del ministro della Salute, non ha dubbi: «è assolutamente troppo presto per iniziare la fase 2».
Il dibattito è ancora vivo. Il Covid-19 fa anche questo, mette alle strette, chiede di fare una scelta netta, di guadagnare qualcosa solo se si perde qualcosa – la salute o lo stipendio?, la salute o la privacy?
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Addirittura ci chiede di scegliere tra salute fisica e mentale – mesi di reclusione casalinga avranno minato coesione sociale e salute mentale: il lockdown ci protegge dal coronavirus, ma non da ansia, depressione, disturbi del sonno.
Dunque, ripartire? Ricominciare? E se per ripresa si intende rischio, non è detto che tenerci chiusi in casa ci sottrarrà dal perdere qualcosa. Quanti soldi, quanti posti di lavoro, quante prospettive abbiamo già perso?
Intrappolati nella logica win some – lose some non troveremo soluzioni accettabili. La riapertura a scaglioni può essere un inizio per posizionarsi in un luogo in cui non si è costretti a fare una scelta netta: tornare alla vita produttiva quanto prima, ma con tutte le precauzioni del caso. Alla fine, siamo ormai pronti ad ammettere che col virus dovremo convivere, almeno per un po’. Sappiamo che per vaccino e cure ci vorrà del tempo. I crolli a doppia cifra delle economie non aspetteranno altro tempo.