Il coronavirus ha notevolmente cambiato lo svolgimento della vita inteso come abitudini, vita lavorativa e privata non solo degli italiani ma, anche, del mondo intero. In linea con il pensiero di molti esperti, poi, i riflessi dell’attuale pandemia si estenderanno anche al futuro prossimo o, quantomeno, fintanto che non si arriverà alla scoperta di un vaccino efficace. Tali considerazioni hanno riportato, almeno per chi è direttamente o indirettamente interessato alla vicenda, l’attenzione su una particolare categoria: quella dei praticanti avvocati. In particolare, i riflessi dell’emergenza pandemica in atto si riverberano inevitabilmente sull’esame di abilitazione alla professione forense per gli anni 2018, 2019. Per quanto concerne il 2020, invece, la problematica è riconnessa ad un evento futuro ed incerto dovendo l’esame svolgersi il prossimo dicembre. Diversa situazione è quella che riguarda i due anni passati: la correzione degli elaborati svolti dai candidati, così come la valutazione orale, sono al momento oggetto di sospensione. Ciò comporta che, mentre le prove del 2019 non possono essere, allo stato, corrette, addirittura alcuni candidati del 2018 non hanno ancora completato la seconda fase dell’esame. Viene da chiedersi, allora, se lo svolgimento dello stesso possa riprendere con le ordinarie misure e, oltretutto, se la prossima sessione d’esame potrà svolgersi liberamente o, invece, se non sia il caso di mettere mano, una volta per tutte, alle modalità dell’esame di stato, famoso “scoglio” per l’accesso alla professione forense.
L’esame di abilitazione alla professione forense, ossia l’esame di avvocato, rappresenta al contempo il punto di arrivo e la partenza della gran parte degli studenti di giurisprudenza e ciò in quanto consente, appunto, l’abilitazione e la conseguente iscrizione all’Albo per gli avvocati. Detto esame, ben lungi dall’essere una mera formalità, è in realtà noto per essere particolarmente ostico non solo da un punto di vista delle prove ma, anche, per le tempistiche del suo svolgimento. Da un punto di vista pratico, allora, oltre ovviamente alla laurea in giurisprudenza, per accedere all’esame si rende necessario aver svolto un periodo di tirocinio di 18 mesi presso lo Studio di un avvocato abilitato da almeno 5 anni ovvero presso organismi pubblici o, ancora, altri uffici giudiziari. Durante il periodo di tirocinio sono previsti alcuni adempimenti che variano a seconda degli Ordini di appartenenza ma, generalmente, ricomperarono la redazione di un apposito libretto dove verranno segnate le udienze a cui il praticante ha partecipato, alcuni casi pratici analizzati dallo stesso, la partecipazione periodica a dei corsi teorici fino ad arrivare alla redazione di una relazione conclusiva e, alle volte, ad un confronto con i rappresentanti dell’Ordine chiamati a valutare l’effettivo svolgimento della pratica. Una volta conclusi tali adempimenti è possibile ottenere il certificato di avvenuta pratica e, finalmente, iscriversi al tanto agognato esame che si svolge, annualmente, a dicembre in una sede unica (salvo alcuni particolari casi) per regione.
L’esame, in concreto, si compone di due fasi: una scritta che si svolge, appunto, a dicembre ed un colloquio orale riservato a chi abbia superato la prima prova che, solitamente, avviene nell’autunno dell’anno successivo. La prova scritta, a sua volta, si compone di tre giornate consecutive in cui il candidato è chiamato a svolgere due pareri ed un atto in un tempo di 7 ore per ciascun giorno. Il primo giorno è dedicato alla redazione di un parere ragionato in materia di diritto civile, a scelta libera del candidato su due diverse tracce, mentre il secondo giorno è dedicato, nelle stesse modalità, al diritto penale. Il terzo giorno, invece, è prevista la redazione di un atto, ovvero uno degli scritti tipici dell’avvocato nello svolgimento dell’attività lavorativa “pratica”, sempre a scelta del candidato fra diritto civile, diritto penale o diritto amministrativo. Per tutte le prove il candidato, oltre ai codici di diritto civile, penale ed amministrativo, può avvalersi dei c.d. codici annotati che raccolgono le principali Sentenze degli anni precedenti. Una volta conclusi gli scritti, che avvengono in forma anonima in quanto il nome del candidato è in una busta sigillata tenuta separata dagli stessi identificati solamente con il numero del posto, è necessario attenderne la correzione. Essa viene svolta da una Corte d’Appello diversa rispetto a quella di appartenenza del candidato e i risultati, generalmente, vengono pubblicati nel mese di luglio. Questa fase porta ad una “scrematura” di circa il 60% dei candidati. I punti assegnati arrivano ad un massimo di 50 per ogni singola prova, la sufficienza viene raggiunta con un punteggio minimo di 90 punti, fra le tre prove ed un’unica prova insufficiente.
I candidati ammessi all’orale, nell’autunno successivo alla pubblicazione dei risultati, dovranno presentare obbligatoriamente, come materie, deontologia, una procedura a scelta fra diritto processuale civile e penale ed altre 4 materie a scelta fra: diritto ecclesiastico, diritto costituzionale, diritto civile, diritto penale, diritto commerciale, diritto internazionale privato, diritto amministrativo, diritto tributario e diritto del lavoro. Ogni commissario dispone di 10 punti e, come per gli scritto, vengono considerati idonei coloro che ricevono un punteggio complessivo non inferiore a 180 e, comunque, non inferiore a 30 punti per almeno 5 prove.
L’esame per l’abilitazione, equiparabile per quanto appena visto ad un vero e proprio concorso pubblico, è stato oggetto, in passato, di una riforma ad opera della Legge n. 247/2012 che, di fatto, non è mai entrata in vigore. Non è chiaro se tale intervento possa apportare un beneficio o meno per il candidato poiché seppur l’intento del legislatore fosse quello di rendere la selezione più “meritocratica”, il risultato è oggettivamente un incremento di difficoltà dell’esame. La previsione di due distinte prove, in realtà, rimane invariata tuttavia cambiano le modalità delle stesse limitando gli strumenti a disposizione del candidato, da un lato, e la libera scelta delle materie, dall’altro. Per ciò che riguarda la prova scritta viene eliminata la possibilità di utilizzare i codici commentati, viene ridotta a 6 ore la durata delle singole prove e, inoltre, è necessario il raggiungimento della sufficienza in ogni singola prova. Se tale modifica, da un lato, permette di cogliere meglio il ragionamento giuridico dei candidati, così come la loro capacità di argomentare, dall’altro dovrebbe comportare una modifica al modo in cui attualmente vengono redatte le tracce che, di fatto, ruotano intorno ad una “sentenza risolutrice”. Negli ultimi anni, in realtà, questa tendenza si è già palesata con riferimento alle tracce scelte, prive di giurisprudenza significativa o, comunque, con diverse soluzioni a seconda delle interpretazioni scelte dal candidato. Altri rilevanti modifiche riguardano, poi,le prove orali. Le materie obbligatorie, infatti, diventano 5: diritto civile, procedura civile, diritto penale, procedura penale e deontologia. Ad esse, poi, dovranno aggiungersi 2 ulteriori materie a scelta del candidato. La mole di studio oggettivamente aumentata – chi conosce le dimensioni delle “procedure” è ben conscio del carico di cui si parla – viene “addolcita” dalla previsione di un database per le domande da parte della commissione. L’orale, allora, non sarà più a discrezione dei commissari ma questi dovranno attingere da una banca dati di domande prestabilite affinché le stesse siano identiche in tutta Italia. La riforma appena analizzata, come anticipato, non è mai entrata in vigore: essa è stata prorogata di anno in anno fino ad arrivare, ad 8 anni dalla sua previsione ad una presunta entrata in vigore per la sessione di esami del 2021.
Al di là delle criticità rilevabili nell’attuale esame, così come quelle che deriverebbero dalla riforma del 2012, l’esame di stato, recentemente, è tornato sotto i riflettori anche per l’intervento in materia da parte delle Nazioni Unite e, in particolare, del comitato CESCR il cui compito è quello di esaminare, in maniera periodica, i progressi dei singoli Stati in materia economica, sociale e culturale. Il Comitato delle Nazioni Unite sui Diritti Economici, Sociali e Culturali ha richiesto formalmente all’Italia quali siano in concreto le iniziative e le misure che lo Stato intende adottare per garantire la massima trasparenza ed imparzialità sul noto esame. Le critiche mosse all’Italia partono dai supremi diritti di’eguaglianza e non discriminazione ma, anche, dal libro accesso alla giustizia laddove potrebbe ravvisarsi un conflitto di interessi. Detto conflitto, come in realtà già sollevato anche dalla Commissione Europea nel 2019, potrebbe sorgere fra organi quali il Consiglio di Stato e la Corte Costituzionale, i cui collegi sono composti da autori di codici commentati o responsabili di scuole private chiamati, al contempo, a garantire i diritti diritti economici e sociali dei cittadini.
Consapevoli, ora, delle problematiche sottese all’esame di Stato per l’accesso alla professione forense, possiamo comprendere l’attuale situazione di incertezza su cui, attualmente, versano migliaia di candidati in Italia connessa all’epidemia in corso. Come anticipato, infatti, la Legge n. 27/2020 ha confermato la sospensione di 60 giorni di cui all’art. 87 comma 5 del decreto legge convertito. Nonostante fosse stato discusso se detto articolo potesse applicarsi anche all’esame forsense, la precisazione è arrivata, in maniera definitiva, con un richiamo espresso nel D.L. 22/2020 e, più precisamente, all’articolo 5. Da ciò torniamo, allora, a quanto sollevato in apertura. Alcune Corti d’Appello, al momento della sospensione, non avevano ancora terminato la seconda fase dell’esame dell’anno 2018 e, ad esse, si affiancano le migliaia di giovani che hanno sostenuto l’esame scritto per l’anno 2019. Per questi secondi, infatti, i risultati dovrebbero normalmente uscire nel mese di luglio e, se le tempistiche sono le stesse da diversi anni, ci si domanda come quest’anno possa essere rispettato un simile termine. Un ulteriore punto critico, poi, è quello della prossima sessione ossia quella prevista per dicembre del 2020. Con riferimento a quest’ultima, essendo incerta l’evoluzione della malattia, così come la scoperta di un ipotetico vaccino, occorre interrogarsi, scongiurando una seconda ondata di contagi, come possa svolgersi in sicurezza un simile esame. Abitualmente questo avviene nel padiglione di una fiera, con banchi ravvicinati ed un paio di servizi igienici, arrivando a contare, in alcune Corti d’Appello come quella Napoli, fino a 4000 iscritti. Verosimilmente, se nei prossimi giorni verrà disposto il proseguio delle correzioni e non una nuova sospensione, i risultati potrebbero uscire a settembre 2020. Ciò potrebbe, allora, generare un nuovo problema con riferimento al numero di iscritti. L’orale, che normalmente inizia dopo 3 mesi dalle correzioni, dovrebbe iniziare a novembre se si vorrà garantire l’uguaglianza dei candidati rispetto agli altri anni. Ebbene, diversi candidati che supereranno gli scritti non riuscirebbero a sostenere la seconda parte dell’esame entro dicembre e da ciò deriva la necessità di iscriversi, in via cautelativa, allo scritto di dicembre aumentando esponenzialmente il numero di candidati.
Parte della politica, dei Consigli Forensi e delle associazioni dei praticanti si è chiesta, allora, quali potrebbero essere le possibili soluzioni. Da questo punto di vista, senza riportare qui il fiume di proposte emerse negli ultimi giorni, si possono riassumere tre differenti ipotesi. Un primo indirizzo vorrebbe che le correzioni, così come il conseguente iter, si svolgessero normalmente. In questo caso, per garantire le tempistiche, sarebbe necessario far slittare la nuova sessione 2020, sempre se sarà possibile il suo regolare svolgimento. Altre proposte, fra cui quella mossa come emendamento alla conversione in Legge del decreto “Cura Italia” da Forza Italia ma anche allo studio da parte di altre forze politiche, vorrebbero modificare le modalità di correzione dell’esame del 2019. Tali proposte spaziano dall’ammissione di tutti i candidati all’orale e la modifica delle materie oggetto di studio in questa sede promuovendo un orale “snello”, alla correzione degli scritti in sede di orale o, ancora, fino alla correzione dei soli scritti legando l’abilitazione al superamento degli stessi. Un ultimo filone di proposte, quello che potremmo definire come più roseo, vorrebbe invece l’abilitazione diretta di tutti i candidati per gli anni 2018 e 2019.
Giunti a questo punto, qualunque sia l’intervento del Governo, l’importante è che venga presa una decisione nel minor tempo possibile. Migliaia di candidati più o meno giovani, infatti, si trovano attualmente in una sorta di limbo. Con una presa di posizione decisa e definitiva del Governo i praticanti, quantomeno con riferimento alle sessioni già tenute, saprebbero come indirizzare la propria vita lavorativa o di studio. Purtroppo, però, la categoria di riferimento manca di un’associazione di rappresentanza univoca. Potrebbe sembrare un paragone un po’ azzardato ma, in realtà, è calzante l’esempio dei rappresentanti di Istituto, per chi ha ancora a mente il periodo delle scuole superiori. Sistematicamente si finiva con l’eleggere studenti di quinta e, sistematicamente, con l’avvicinarsi dell’esame scemava la loro presenza fino a divenire nulla nei primi mesi dell’anno, ovviamente, una volta conseguita l’agognata maturità.
Non si deve però confondere l’emergenza in atto con la volontà di cambiamento e, magari, limitarsi a trarre profitto solo da questo. La pandemia ha solo messo in evidenza la criticità del sistema attuale e, in particolare, le tempistiche di questo: ai 5 anni di studio ed ai 2 di pratica obbligatoria si aggiungono, il più delle volte, ulteriori anni sulle spalle dell’aspirante avvocato. Si deve auspicare, allora, oltre che per la presa di posizione sulla situazione in corso, anche nel coraggio di mettere mano nuovamente, dopo 8 anni dall’ultima modifica, all’intero sistema, anche se non nell’immediato. In tal senso fa ben sperare la posizione del Ministro della Giustizia che, durante la prima seduta giurisdizionale del Consiglio Nazionale Forense tenutasi nell’ottobre del 2019, manifestava l’intenzione di intervenire definitivamente e nuovamente sull’esame di abilitazione alla professione forense.
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