Quarto potere (1940) arriva nel bel mezzo dell’epoca d’oro hollywoodiana, come un’incursione tempestosa. Fu un grande progetto capitanato da una mina vagante, una personalità poliedrica, portentosa, ovvero Orson Welles. Il film sfidava vari assetti, turbando le acque del contesto socio-politico contemporaneo – specialmente attraverso la figura del magnate William Randolph Hearst – e portando ventate rivoluzionarie per il cinema stesso.
Welles arrivò a Hollywood cambiando le carte in tavola di un gioco altrimenti molto preciso e regolare. L’epoca d’oro hollywoodiana era tale grazie a un articolato ed efficace meccanismo produttivo, ormai emblematico del modus operandi americano. Appena dietro c’era stato il decennio degli anni Trenta, che aveva visto il nascere e l’assestarsi del sonoro, e aveva portato a un consolidarsi di strutture produttive già in azione negli anni precedenti, ma ancora più perfezionate, e all’ascesa di nuove case produttive protagoniste. Trionfò la rigida egemonia degli studios, che controllavano l’intero processo decisionale di una produzione cinematografica, oltre che quello commerciale (controllavano infatti anche la distribuzione e possedevano proprie sale esercenti). Il processo investiva i soggetti, gli attori, il budget, fino ai vari momenti della lavorazione film, dalla sceneggiatura, alle riprese fino al montaggio. Non esisteva granché il concetto più europeo di autore, legato alla figura del regista. Poca era l’autonomia artistica, dunque, lasciata a registi pur noti ancora oggi, come Howard Hawks o John Ford (tant’è che loro stessi, in pieno e tipico understatement americano-classico, si consideravano mestieranti). Il ventennio Trenta-Quaranta vedeva cinque majors dominanti: Paramount, MGM (Metro Goldwin Mayer), Fox, Warner e la giovane RKO, nata proprio con il sonoro. La competizione era alta, i cinque vertici del tempo si dividevano il mercato delle sale prestigiose, ognuna con un proprio stile riconoscibile, con un proprio comparto di star altrettanto riconoscibili. Nel 1939 la casa MGM lancia Via col vento di Victor Fleming, produzione sfarzosa come il suo marchio, apice mastodontico delle prospettive in grande del produttore David O. Selznick, record di incassi e ancora oggi uno dei film più popolari della storia del cinema. È una vittoria che fa da apoteosi di un assetto produttivo, che accomuna anche le altre case, dove vince anche la collaborazione di scrittori, attori, registi prestigiosi.
RKO, cioè la Radio Keith Orpheum Pictures, cercò di rispondere con nuove acquisizioni che potessero gareggiare per prestigio, e aveva ben notato la figura dell’allora ventiquattrenne Orson Welles.
C’era una volta a Hollywood Orson Welles
Nonostante l’età giovane, Welles si era già conquistato la fama necessaria per diventare un’acquisizione appetibile di RKO. Enfant prodige, familiarizzò con l’arte sin dai primi anni di età, recitando nel 1918, a soli tre anni, in rappresentazioni come Madama Butterfly. Dietro c’era lo stampino della madre, suffragetta, pianista, che spingeva il figlio di precoce talento a esprimersi in varie forme artistiche. Welles dunque si trova sin da subito a vestire il ruolo di piccolo genio, imparando a suonare il pianoforte e a dipingere. Tuttavia un evento doloroso segnò la vita del giovane Orson, che perse improvvisamente la madre nel 1925 – evento che si rifletterà poi in Quarto potere. Abbandonò di conseguenza la carriera musicale, concentrandosi sul teatro e dirigendo da sé nel contesto scolastico opere shakespeariane. Una carriera teatrale che poi proseguirà in un avventuroso giro per il mondo, dall’Irlanda a Londra, fino ad arrivare a Broadway nel 1934. Shakespeare sarà un amore costante per Welles, tanto che la prima rappresentazione teatrale della sua compagnia, fondata nel 1937, la Mercury Theatre, sarà un Giulio Cesare ambientato nell’allora contemporanea epoca fascista. Vale la pena accennare che il Bardo è onnipresente in tutta la sua opera, compresa dunque anche quella cinematografica. Non lo sarà soltanto attraverso le trasposizioni di Macbeth (1948) e Othello (1951), ma aleggerà anche nei film apparentemente lontani, con altri soggetti, come un’influenza che ben si accorda al carattere dello stesso Welles. Non meno importante, in anni gravosi come quelli della seconda guerra mondiale, è il suo spirito politico anti-fascista, anch’esso visibile in Quarto potere.
Dunque Welles ai tempi era già noto come una figura irriverente, ribelle, anti-convenzionale e anche di spirito abbastanza impositivo, insofferente a rigidi schemi autoritaristici che invece dominavano Hollywood. RKO non ne era meno consapevole, ma questo non la dissuase dal proporgli un contratto per una collaborazione. Non era nemmeno la prima proposta per Welles nel cinema, che si era già dimostrato un soggetto poco piegabile, rifiutando altre proposte da Hollywood poco in accordo con le sue volontà artistiche. Questo della RKO fu un contratto senza precedenti, dato che la casa di produzione andò contro le abitudini che abbiamo illustrato precedentemente, e diede una pressoché totale autonomia a Welles, dalla scelta del soggetto in poi. Gli accordi non furono facili: Welles voleva girare una trasposizione di Cuore di tenebra in modo del tutto inconsueto per gli schemi hollywoodiani, dando già un primo sentore delle sue potenzialità innovatrici. L’idea era di girare con un punto di vista registico in totale soggettiva, condotto come una prima persona narrativa, ma l’operazione, oltre a essere del tutto nuova, dunque gettando diffidenza nella RKO, si rivelò troppo costosa. Fu annullato anche un secondo progetto, un film poliziesco che si sarebbe intitolato Smiler with a Knife. Quarto potere allora arriva al terzo tentativo, che finalmente andò in porto, con l’assunzione dello sceneggiatore veterano Herman Mankiewicz. Quest’ultimo ebbe un ruolo importante nella scrittura di Quarto potere che non può essere taciuto. Vi sono state infatti varie controversie su quanti meriti spettassero effettivamente a Orson Welles, il quale offrì persino a Mankiewicz un’importante somma di denaro perché il suo nome fosse meno in evidenza del proprio, e quante invece a Mankiewicz, un dibattito che sarebbe arrivato agli anni Settanta con la pubblicazione, ad esempio, di Raising Kane (1971) di Pauline Kael. Attraverso un’accurata indagine ormai si ha un quadro equilibrato dei contributi dati durante la lavorazione del film, dell’importante interazione tra Mankiewicz e Welles, dando a Cesare quel che è di Cesare per entrambe le parti. In questo senso non sono nemmeno da trascurare i contributi di persone come Gregg Toland, direttore della fotografia, figura molto importante per la stessa formazione dell’allora inesperto Welles sul set, come racconta lo stesso regista nell’intervista con Peter Bogdanovich del 1970.
Il soggetto del lavoro di Welles e Mankiewicz doveva essere imperniato su un modello di grande magnate americano, il quale avrebbe riflesso un tipo sociale emblematico, il grande affarista, nato dal nulla, portato al successo dagli anni del New Deal, e poi travolto dai suoi stessi eccessi, errori. Non a caso il primo titolo pensato per il film era un più semplice American. Quarto potere infatti rappresenta una moltitudine di aspetti difficilmente esauribili in questa sede, ma di certo tra di essi c’è un percorso cronologico in cinquant’anni di storia americana, dai tempi pioneristici nel territorio del Colorado fino all’agognata Casa Bianca ai tempi del New Deal. Il protagonista di questo percorso è Charles Foster Kane, milionario noto per la sua ricchezza, per il suo carisma e per le sue numerose imprese, dalla fondazione del giornale Inquirer fino alla carriera politica. Kane al momento della sua morte lascia varie ambiguità e insoluti per la curiosità dei reporter giornalistici. Quest’ultimi iniziano un’indagine sulla sua persona, cercando attraverso varie testimonianze di persone intime a Kane, di comprendere chi fosse veramente e quale sia il segreto della sua ultima parola sul letto di morte, “rosebud“.
I soggetti di ispirazione in fase di lavorazione furono diversi: la prima idea fu di usare come “soggetto” l’imprenditore Howard Hughes, ma la scelta finale ricadde invece sul plurimilionario William Randolph Hearst, proposto da Mankiewicz. Repubblicano, simpatizzante di Mussolini e Hitler, è ricordato per essere stato padrone di un importante impero mediatico (era a capo della testata del New Jork Journal, riecheggiato dal film, ma acquisì anche importanti riviste come il Cosmopolitan presso l’Hearst Corporation), creatore del giornalismo scandalistico (il cosiddetto yellow journalism). Sembrava il candidato perfetto, e il film allude alla sua vita e alla sua persona in vari dettagli, con un intento di satira, provocazione non indifferente. Tuttavia Quarto potere non è un film biografico su Hearst in tutto e per tutto. La figura del protagonista Kane ha vari tratti non riconducibili a Hearst, e così anche alcune dinamiche ed episodi raccontati nel film. Non ci interessa ora analizzare passo per passo i motivi biografici su Hearst presenti nel film, su cui sono state scritte comunque numerose pagine, ma è importante segnalare la risposta di Hearst a Quarto potere, che fu decisiva per le sorti del film. Hearst, che venne a sapere da varie indiscrezioni del suo coinvolgimento, tentò di bloccare la lavorazione, tanto da cercare di bruciare i negativi del film, e la sua feroce opposizione rese il debutto hollywoodiano di Welles già “maledetto” in partenza. Il film non riuscì ad avere nemmeno una larga distribuzione, e fu sì un grande successo di critica, ma anche un insuccesso di pubblico. L’imprenditore riuscì a inibire la carriera del giovane Orson a Hollywood, che dopo il secondo, mutilato, film L’orgoglio degli Amberson non avrebbe più lavorato con la major RKO.
Si deve tuttavia ringraziare di certo l’operazione avviata dalla RKO, ignara di ciò che ne sarebbe venuto, perché il suo risultato, Quarto potere, è andato ben oltre ogni previsione dal punto di vista cinematografico. Welles ebbe un’esuberanza stilistica, persino virtuosistica, che non si ripeté più con tali vette nei suoi film successivi: si sente la vivacità di un regista che ha tra le mani per la prima volta, grazie alle risorse e ai mezzi dati dall’ambiente degli studios, un materiale vivo, una prima possibilità di esplorare appieno il linguaggio cinematografico che non esita a spremere nelle sue varie potenzialità, con mosse visionarie, inaspettate da parte di una voce artistica giovane. Quarto potere è strabordante, estremamente caricato. Lo è in numerosi aspetti, a partire dall’immagine. Quest’ultima da Welles è caricata in un modo del tutto nuovo: più che puntare a un’arte del montaggio (di cui comunque si serve sapientemente, quando vuole), punta invece alla profondità della singola inquadratura. Di Quarto potere infatti viene ricordato spesso l’espediente della profondità di campo. Se nel cinema classico hollywoodiano la narrazione procede solitamente attraverso tagli dove le inquadrature mostrano parti selezionate dello spazio, Welles incastra molti elementi in una singola inquadratura, optando per una totale messa a fuoco dello spazio. Un regista classico avrebbe orientato l’attenzione dello spettatore, attraverso un focus selettivo, su particolari dell’immagine. Nell’intento di Welles, che ambiva a riportare un certo “realismo” al cinema, lo spettatore invece doveva avere una visione a suo dire più vicina all’esperienza umana, lasciando che il suo occhio potesse vagare sulla scena e scegliere da sé su cosa concentrarsi. Fu un aspetto di Quarto potere molto amato dal critico André Bazin, ad esempio. Sarebbe tuttavia improprio spingere troppo sull’argomento del realismo dal punto di vista stilistico, dal momento che Quarto potere in molti punti va ben oltre il reale, virando sul grottesco, sul deformante, in piena concordanza con il personaggio di Kane. L’occhio è invaso da particolari, ma in una maniera che eccede invece la normale percezione del mondo, e vi è una concentrazione vivace di più elementi, studiati e meditati minuziosamente, che son permessi in verità soltanto dal deliberato artificio dell’arte. Si è lontani dall’arte invisibile, i cui meccanismi sono volti a non causare mai la rottura dell’illusione narrativa – come succedeva nella Hollywood classica -, ma il poco familiare qui serpeggia dappertutto, tutto si distorce, elemento che si confà alla natura straniata di Kane stesso, al suo rapporto alienato con la realtà. Dunque più che il realismo è proprio l’artificio ad essere al cuore di Quarto potere: attraverso di esso, attraverso l’accentuazione drammatica, talvolta caricaturale si può illuminare meglio alcuni aspetti della psicologia umana, ma anche della società.
È interessante notare che Welles si discosta dalla tradizione rinunciando a normali e ricorrenti close-up delle star. Non solo sceglie per una buona parte attori nient’affatto famosi a Hollywood (innervosendo la dirigenza della RKO), ma non riserva loro nemmeno consistenti primi piani. Gli attori abitano la scena insieme agli altri elementi, che premono per partecipare del significato complessivo ambito dal regista. Sono spesso in posizioni innaturali, immortalati in composizioni simboliche, o perlomeno cariche di semantica. È significativo il fatto che raramente si confrontano uno di fronte all’altro, ma son spesso in posizioni oblique, verso direzioni diverse, alludendo bene alla loro distanza interpersonale, lontani dal toccarsi veramente l’un l’altro. Kane, in questo senso, condiziona pesantemente la sua rete di relazioni e i personaggi che son portati a testimoniare della sua vita: è tirannico, e nella mania di conquista che gli è propria, non ha legami affettivi (salvo quello materno) veramente genuini, ogni cosa è pretesto, è strumento per l’affermazione di sé. L’orizzonte del mondo si popola di oggetti da afferrare, da possedere, da campi d’azione politica strumentali alle donne oggettificate (salvo poi scoprire che la realtà è più delle proprie pretese di misera recinzione). Così Kane manifesta il controllo sugli altri finendo le loro frasi, tagliandole, parlandovi sopra. Gioca un ruolo, qui, anche la sovrapposizione sonora, costante di Quarto potere quanto la sovrapposizione visuale: il film ha dialoghi dove le battute degli attori si scavalcano una con l’altra, come d’altronde si faceva già nella slapstick comedy di Hawks, ad esempio, ma in un intrico più fitto di influenze, eco, dove s’aggiunge l’elemento musicale (altrimenti estraneo ad Hawks, dove la musica non interferisce troppo con i dialoghi udibili dei personaggi, restando perlopiù isolata) che si inserisce anche tra due battute dello stesso personaggio per dare il proprio contributo al motivo della scena, mai casuale. Emblematica in questo senso la scena del party dopo i primi successi dell’Inquirer, dove tra elementi visuali disseminati per tutto il visibile ed elementi sonori dai dialoghi, fino alla musica che soltanto a una prima parvenza è sullo sfondo, si condensa tanto di tutta la diffusa portata del film.
L’innovazione, affermata da Welles, di portare nel profilmico i soffitti delle stanze, altrettanto inusuale a Hollywood, non era completamente tale. I soffitti sono stati inquadrati anche da D. W. Griffith, ad esempio, ma anche in un The Gold Rush di Chaplin. La vera innovazione è il piegamento così evidente di tanti aspetti del profilmico e filmico a un significato psicologico e metafisico. Un intento più vicino all’espressionismo tedesco, ad esempio, presente in alcune parti di Quarto potere, che al cinema hollywoodiano (la differenza di intenti rispetto a Wiene, Murnau in Welles è di aver piegato anche la macchina da presa a questo). Il contributo al film della presenza inusuale dei soffitti nelle scene allora è un esempio tra i tanti di come il regista controlli lo spazio: quelle abitate da Kane sono regioni oppressive, i soffitti sembrano persino troppo bassi, schiacciano l’individuo, o al contrario, in alcuni momenti, comicamente alti, rendendo le grottesche manie di grandezza di alcuni personaggi (Kane, il banchiere Thatcher). Quest’ultime manie di grandezza sono un sintomo delle nevrotiche relazioni con l’ambiente circostante di Kane. All’origine vi è un episodio di trauma originale, che getterà un’influenza su tutto il resto della vita di Kane: la separazione dalla madre, che lo vende a una banca (rappresentante gli ambiti poteri forti degli Stati Uniti) per un avvenire migliore, lontano dal territorio ancora rozzo, rurale del Colorado per avventurarsi nel cuore metropolitano degli Stati Uniti (e del sogno americano). Kane, dunque, si trova ad essere stato oggetto di decisioni altrui, imprigionato in una tela. Il bambino Charlie già reagisce in maniera riottosa al nuovo surrogato di padre, il banchiere Thatcher, che lo vuole portare via e farne una propria “creatura”, figlia del rampante capitalismo americano dei tempi. E la ribellione sarà una costante di Kane – in cui si può trovare uno spunto autobiografico di Welles -, il cui tentativo di costruirsi un proprio impero, lontano dalle orme di Thatcher e dell’età dei tycoon, è un atto passabile di analisi psicanalitica (come invita lo stesso rosebud). D’altronde è una manifesta costante la confusione di Kane tra personale e politico, abilmente miscelato da Welles stesso, talvolta proprio attraverso inaspettati tagli di montaggio, con audaci associazioni, come il passaggio dalla conquista sessuale della seconda moglie Susan ai clamori della campagna presidenziale, la quale mima i grandi discorsi alla folla di Hitler. Kane pare grande e mediocre allo stesso tempo, gigante e ridicolo, sempre passato sotto il sottile sguardo ironico di Welles.
La storia di Kane è americana anche nel leitmotiv dell’uomo che si fa da sé, della salita vertiginosa, rasentando la presidenza, e della desolante discesa fino all’isolamento a Xanadu, ma non è soltanto questo. Welles complica i piani, rendendo l’intricato enigma di Kane da più angolazioni. Visualità, sonorità forzate, spazi contorti, tirati come rappresentanti della stentata relazione con l’ambiente, in Quarto potere si contengono compresenze che diventano persino contraddizioni. Come nel puro (e insufficiente) aspetto informativo della sequenza parodica del cinegiornale, dove si presentano i momenti salienti di Kane, si mostra che Kane non aveva abbracciato sul serio alcuna convinzione, risultando prima di sinistra, amico (paternalistico) del popolo, dei loro diritti da rivendicare, e ancora dopo al contrario fascista, o ancora nelle scene al giornale, dove il suo cinismo e l’assenza di veri principi morali si mostrava e avrebbe illuminato i reali intenti, di sete di dominio sul popolo attraverso i media, che avrebbero animato la sua corsa politica. Kane non può essere definito in maniera univoca, ma lo stesso Quarto potere sembra voler contenere importanti piste di risoluzione e poi smontarle, alludendo alla sostanziale impossibilità, forse, di conoscere davvero un uomo. Un sentore nebbioso, fitto e intricato che lo stesso scrittore Jorge Luis Borges ha visto nel film, recensendolo e descrivendolo come un labirinto dove tutte le vie paiono portate a un centro, e allo stesso tempo a niente. Così sono anche le testimonianze, dunque i punti di vista, dati dai vari personaggi che intendono dire la loro, in modo inevitabilmente parziale, su chi fosse Kane.
La ricerca iniziata ancora prima che con i reporter con la macchina da presa, che mostra il cartello no trepassing sulla dimora di Xanadu e poi puntualmente lo supera per avventurarsi nel privato di Kane, è dunque dello stesso spettatore. È la consapevolezza di Welles della natura inquisitiva dei media, non solo i giornali o l’opinione pubblica (fatto per noi attualissimo), ma anche il cinema stesso. Non manca il voyeurismo nella macchina da presa di Quarto potere, presenza narrante che si fa sentire, quasi ulteriore personaggio, che interpreterà l’inevitabile curiosità dello spettatore e spesso indugerà su particolari, addirittura si staccherà dai personaggi per mostrare elementi soltanto ad esso come alcuni particolari sui recessi della parola rosebud. E con questo si è soltanto accennato agli aspetti della relazione con lo spettatore di Quarto potere, come si è soltanto appena accennato ad altri innumerevoli aspetti del film. L’opera prima cinematografica di Welles è una ricerca dell’identità inabissata, e dove l’esuberanza e la volontà esplorativa di Kane e così dell’uomo stesso, chiedono esplicitamente allo spettatore attento più visioni, volte anche ad estrarre dall’intricata matassa altri aspetti, altri strati da riordinare.