Tra propaganda e diritto: domiciliari per i condannati al 41 bis

La propaganda, secondo il filosofo e matematico Bertrand Russell, si rivolge perlopiù all’irrazionale, alle crude emozioni. Ne sa qualcosa Matteo Salvini che in una delle sue innumerevoli dirette Facebook chiama in causa le vittime di mafia, fomentandone lo sdegno per la vergogna nazionale. L’indignazione popolare, cavalcata poi magistralmente da Salvini, è da ricollegare a due eventi: la concessione dei domiciliari per Francesco Bonura e per Pasquale Zagaria, due boss mafiosi detenuti al 41 bis.

Il leader della Lega, per ignoranza o malafede, cita entrambi i casi come merito dell’azione di governo. Eppure, nessuno di essi può essere inquadrato in un monologo senza contraddittorio. È necessaria una valutazione più approfondita. Senz’altro per raggiungere la verità, ma soprattutto per rispetto a quelle vittime di mafia che Salvini vorrebbe proteggere. Lo stesso ex Ministro dell’Interno che, quando era al governo, non ci ha pensato due volte a complicare l’accesso ai fondi dell’assistenza legale per i perseguitati dal racket mafioso.

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Raduno della Lega Nord a Pontida, aprile 2013. Creative Commons.

La decisione dei giudici: 41 bis e diritto alla salute

Francesco Bonura, 78 anni, detenuto nel carcere Opera di Milano, era stato condannato in via definitiva nel 2008 dal giudizio abbreviato scatenato dall’operazione Gotha. Bonura era uno dei capi della Triade di Cosa Nostra a Palermo, assieme a Nino Rotolo e Antonino Cinà. Il boss avrebbe potuto lasciare il carcere a marzo del 2021, senza calcolare le attenuanti generiche, mentre invece passerà il resto della pena ai domiciliari.

La decisione del Tribunale di Sorveglianza di Milano sul caso Bonura ha fatto seguito alla circolare amministrativa rilasciata dal Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) il 21 marzo scorso. In quella nota, il Dap stilava una lista di detenuti cui era possibile riconnettere elevati rischi di complicanze per le precarie condizioni di salute, e per l’età avanzata. Francesco Bonura nel 2013 è stato operato per un tumore al colon e soffre di ipertensione arteriosa. Presentava quindi tutti i presupposti stabiliti dalla legge ordinaria per il differimento facoltativo della pena.

La concessione dei domiciliari a Pasquale Zagaria, 60 anni, mente economica del clan dei Casalesi e fratello del più famoso Michele, presenta invece motivazioni più articolate. Il noto boss di camorra è stato condannato a 20 anni di reclusione, con un fine pena collocato nel 2024. Il Tribunale di Sorveglianza di Sassari ha permesso al detenuto di trascorrere i prossimi cinque mesi in un paesino in provincia di Brescia, insieme alla moglie e ai due figli. Sarà ovviamente sorvegliato, come capita a chiunque ottenga i domiciliari, e potrà uscire solo per esigenze sanitarie.

Una scelta impopolare

Il magistrato di Sassari che ha seguito il suo caso, Riccardo De Vito, ricorda la complicazione del quadro patologico del condannato. Già affetto da una forma tumorale aggressiva, egli necessitava di un programma diagnostico-terapeutico considerato “indifferibile” dai medici che lo avevano in cura. Il problema si è posto poiché il centro ospedaliero dove Zagaria avrebbe dovuto svolgere le terapie non era più accessibile, in quanto ormai adoperato interamente per l’emergenza Covid.

Il Tribunale di Sorveglianza, quindi, ha chiesto al Dap di individuare una struttura carceraria attrezzata o prossima a strutture di cura. Il Dap, secondo il magistrato di sorveglianza, non ha mai risposto. Il Tribunale, dovendo prendere una decisione in tempi rapidi, ha optato per i domiciliari. Lo ha fatto tenendo conto delle precarie condizioni di salute del detenuto, e della possibilità di aggravo derivante dal virus. Il 41 bis, secondo il giudice, non rappresenta quindi una misura coercitiva sufficiente a eliminare il rischio di contagio. Per evitare di mettere a repentaglio la salute del detenuto, il Tribunale ha dovuto operare una scelta, seppur impopolare.

41 bis
Carcere. Foto Pixabay.

Tra le altre motivazioni del procedimento, il magistrato riporta un parere della Corte di Appello di Napoli su Zagaria, che è bene citare. «[…]il prolungato periodo di detenzione, posto in correlazione con la circostanza che il detenuto si costituì spontaneamente in carcere e, nel corso del processo penale, rese confessione in ordine a gran parte dei reati contestati, condotta che rappresenta un inequivocabile sintomo di iniziale ravvedimento, inducono a escludere la concreta operatività della presunzione di perdurante al momento della formulazione del giudizio». Alla fine, si ricorda come il detenuto stesso non abbia insistito più di tanto per tornare a casa. Anzi, gli sarebbe bastato ottenere il trasferimento in un penitenziario attrezzato, con il solo fine di ricevere le terapie necessarie.

Il caso politico sul 41 bis

È chiaro, dunque, come nelle motivazioni dei magistrati di sorveglianza non ci sia alcun riflesso governativo, come d’altronde la separazione dei poteri impone. Contrariamente a quanto più volte ribadito dall’opposizione, e da alcuni giornali, il decreto Cura Italia, del 14 aprile scorso, con questa sentenza non c’entra.

Come abbiamo avuto modo di illustrare, l’emergenza sanitaria ha raggiunto le carceri già dal marzo scorso, sollevando rivolte in circa quaranta istituti penitenziari. Il sovraffollamento dei luoghi di reclusione, unito alla carenza di dispositivi di protezione, ha aumentato il rischio di contagiosità, sia per i detenuti che per gli agenti della polizia penitenziaria. Una situazione drammatica a cui il Cura Italia voleva mettere una pezza, permettendo uno snellimento delle carceri italiane, sebbene in numero estremamente esiguo.

Leggi anche: Che cosa sta succedendo nelle carceri italiane?

C’è da notare che il decreto era rivolto a tutti i reati minori, lasciando coscientemente da parte i reati più gravi, incluso il 41 bis. Eppure, le critiche per la scarcerazione dei boss mafiosi sono arrivate da più parti, non solo dalle opposizioni. Il PD e il Movimento 5 stelle hanno chiesto la convocazione immediata della commissione Antimafia per indagare sul mancato intervento del Dap. Anche il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha commentato la notizia del trasferimento agli arresti domiciliari di Francesco Bonura.

«Al di là del comprensibile smarrimento che la notizia ha creato nei familiari delle vittime di mafia – ha spiegato Orlando – non si può non sottolineare che il trasferimento ai domiciliari […] appare una palese contraddizione dei motivi stessi per cui sarebbe stato disposto il 41 bis. Esporre i boss ai rischi di contagio che derivano dal farlo andare in un ambiente non protetto credo sia un atto cui mi auguro il Tribunale ponga immediatamente rimedio». Una valutazione completamente diversa rispetto a quella del magistrato di Sassari che ha concesso i domiciliari a Pasquale Zagaria.

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Leoluca Orlando alla XVIII Maratona Internazionale di Palermo, il 18 novembre 2012./Creative Commons

Il Dap al centro delle polemiche

Dello stesso avviso di Orlando è Catello Maresca, uno dei Pm dell’Antimafia che arrestò Zagaria. «In questo modo – dice – si sta ricostituendo uno dei clan più pericolosi del Paese. Le responsabilità vanno accertate e sanzionate». Antonino Di Matteo, componente del Csm ed ex magistrato antimafia, pensa che questa sia una grave offesa per le vittime della mafia. Lo stesso Di Matteo è intervenuto domenica sera in diretta telefonica da Massimo Giletti, a Non è l’Arena. Nel suo intervento, ha preferito concentrarsi sui suoi trascorsi con il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.

A quanto dice l’ex Pm, Bonafede gli aveva offerto di ricoprire la carica di direttore del Dap, salvo poi tirarsi indietro. Questo perché la sua nomina aveva provocato lo sdegno di alcuni mafiosi detenuti al 41 bis. Secondo la ricostruzione di Bonafede, nel 2018, dopo aver incaricato Francesco Basentini alla direzione del Dap, il ministro ha offerto a Di Matteo la possibilità di occupare il posto che una volta era stato di Giovanni Falcone: la funzione di Direttore generale degli Affari Penali. La polemica scaturita da questo scontro in diretta tv è ancora lontana dal concludersi. Nonostante ciò, le opposizioni chiedono le dimissioni di Bonafede, o un confronto con Di Matteo in commissione Antimafia.

Per ora, l’unico travolto e sconfitto dalle polemiche, e dalla propaganda, è Basentini, che ha rassegnato le dimissioni. In quanto direttore del Dap, era anch’egli intervenuto alla trasmissione di Giletti, una settimana prima di Di Matteo. Ora, Bonafede ha nominato a capo del Dap il procuratore generale di Reggio Calabria Dino Petralia. Poi, per frenare le polemiche, ha velocemente predisposto un decreto, varato il 29 aprile scorso. D’ora in avanti, prima che un Tribunale di Sorveglianza possa decidere riguardo i condannati al 41 bis, sarà obbligatorio sentire il parere del procuratore nazionale Antimafia.

L’umanità del diritto

Il 41 bis così come lo conosciamo nacque nel 1992, a seguito delle stragi mafiose di Capaci e via d’Amelia, in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il regime detentivo speciale del 41 bis fu esteso ai boss mafiosi per impedire ogni tipo di comunicazione verso l’esterno. Così, si evitava ai condannati la possibilità di impartire ordini pur restando all’interno delle mura del carcere.

Su richiesta delle organizzazioni internazionali, l’Italia negli anni ha apportato delle modifiche al 41 bis, considerata restrittiva in alcuni ambiti, ed esageratamente punitiva. Come nel caso di Bernardo Provenzano, che valse all’Italia una condanna della Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) nel 2018. Secondo il parere della Corte, aver deciso di continuare a sottoporre il detenuto al 41 bis nonostante lo stato vegetativo in cui questo si trovava, lo avrebbe sottoposto a “un trattamento inumano e degradante”.

Gli articoli 13 co. 4 e 27 co. 3 della Costituzione Italiana ci ricordano come ogni persona soggetta a restrizioni della libertà personale non possa ricevere trattamenti contrari al senso di umanità. Questi, insieme all’articolo 32 sul diritto alla salute, si pongono come capisaldi inderogabili dello Stato di diritto. Quello stesso diritto che i giudici italiani, che piaccia o meno, sono tenuti a rispettare.

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Paolo Borsellino e Giovanni Falcone./Flickr.

Riguardo alla sentenza di Bernardo Provenzano, l’opinione di Maria Falcone, sorella di Giovanni, viaggia in questo senso. La sentenza della CEDU, secondo lei, non mette in discussione il 41 bis, strumento irrinunciabile nella lotta alla mafia. «Sta poi ai magistrati (per Provenzano anche sulla base delle indicazioni dei medici) valutare nei singoli casi fino a quando è necessario mantenere il regime carcerario del 41 bis.» Stesso pensiero lo ha espresso l’Associazione Antigone, che ha poi definito strumentale e inaccettabile il polverone creatisi in seguito alla scarcerazione di Pasquale Zagaria.

La semplicità della propaganda

Prendersela con i magistrati che svolgono il proprio lavoro può forse spianare la strada a soluzioni del problema politicamente appaganti, ma troppo semplicistiche. Una soluzione poteva essere nelle mani del Dap, che avrebbe potuto pianificare in anticipo il trasferimento di quei detenuti al 41 bis che necessitavano di cure mediche. In questo modo, ne avrebbe garantito il diritto alla salute e allo stesso tempo assicurato la sicurezza della collettività. Il timore, adesso, è che altri boss mafiosi possano sfruttare l’occasione per ottenere i domiciliari.

In ogni caso, se da un lato teniamo in forte considerazione la nostra tutela, dall’altro è indispensabile salvaguardare certi principi democratici dello Stato di diritto. Questo è ciò che dovrebbe distinguere il nostro Paese dalle organizzazioni mafiose che operano al suo interno. La riflessione ci impone di non cedere all’emozione, anche se di fronte abbiamo dei pericolosi criminali.

Da qui dovrebbe partire, forse, un dibattito a tutto tondo sul futuro del regime speciale. Un dibattito del tutto laico, non caratterizzato da pregiudiziali ideologiche, ma animato dalla volontà di avvicinarsi sempre di più alla Costituzione. Di sicuro, niente che possa essere argomentato con una diretta Facebook.

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