Sabato pomeriggio Silvia Romano è rientrata in Italia, dopo essere stata rapita il 20 novembre 2018 in Kenya, mentre operava come volontaria per l’associazione Africa Milele Onlus. In questi diciotto mesi abbiamo ricevuto poche notizie sulle sue condizioni, e la nebulosità della faccenda ha rischiato di far precipitare nel dimenticatoio la sua storia, come quella di altri rapimenti.
Tra le poche persone che sono state vicine (pur mantenendo la discrezione verso la ragazza e la famiglia) al caso c’è stato l’ex candidato alla segreteria del Partito Democratico e fondatore di Possibile Giuseppe Civati (lo avevamo già intervistato un anno fa). Ogni giorno ha dedicato un pensiero alla venticinquenne milanese sequestrata da miliziani vicini ad Al-Shaabab, che l’hanno nascosta – pare – in sei luoghi diversi tra Kenya e Somalia.
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Appena ci mettiamo in contatto con lui, dalla voce traspare la residua emozione per la liberazione per quella che «senza conoscerla, è diventata col tempo un’amica» e – pur non ammettendolo esplicitamente – la stanchezza per le varie interviste e dichiarazioni che sta rilasciando negli ultimi giorni ai principali giornali italiani.
Ciao Giuseppe, sei stato tra coloro che hanno contribuito a non distogliere l’attenzione dalla vicenda di Silvia Romano ed è naturale chiedertelo: cosa hai provato alla notizia della sua liberazione?
«Non saprei come trasferire nelle parole il sentimento che ho avvertito in me sabato pomeriggio. Pur non conoscendola direttamente, per me è stato quasi come se fosse ritornata una mia cara amica. Nel seguire la sua storia mi sono affezionato a lei. Se dovessi trovare una risposta, ti direi che ho forse provato la più normale tra le sensazioni: la felicità di aver ricevuto una bella notizia».
Quando lavora l’intelligence è sempre difficile ricevere informazioni chiare anche per chi segue da vicino le operazioni. Tu hai avuto qualche indiscrezione prima della notizia ufficiale? Eri ottimista sulle possibilità di un suo rilascio?
«In realtà in questi mesi ho ricevuto informazioni molto parziali. Se ti raccontassi alcune delle cose che mi è toccato sentire non saprei neanche quantificare la creatività e la fantasia messe in campo ad hoc per creare scalpore attorno alla storia di Silvia Romano. Non voglio neanche ricordarle perché si sono dimostrare clamorosamente false.
L’unica informazione certa che abbiamo avuto negli ultimi tempi è stata la certezza, confermata dal video dello scorso gennaio, che Silvia fosse viva. Questo ha alimentato le nostre speranze».
In generale come giudichi l’operato dell’intelligence italiana (si polemizza, senza certezza quantitativa per ora, per il pagamento di un riscatto ai rapitori) e del governo? Qualcuno ha parlato per quest’ultimo di spettacolarizzazione e manie di protagonismo di alcuni esponenti dell’esecutivo.
«Personalmente non ho alcun argomento in contrario al pagamento di un riscatto per liberare Silvia, come chiunque altro. Per quanto pochi Paesi occidentali lo ammettano apertamente, è la prassi durante queste trattative. Gli stessi Stati Uniti hanno scambiato prigionieri di Guantanamo per la buona riuscita di una “trattativa”; l’Italia lo ha sempre fatto. Chiaramente sarei contento se non si pagasse nulla, ma a quale rischio? Far morire chi è sotto sequestro?
Sul governo, ciò che è successo era forse inevitabile. La dialettica ci propone anche di pensare a come una cosa sarebbe potuta andare diversamente da com’è effettivamente andata. Più che altro, sarei stato più attento nel selezionare le informazioni (o presunte tali) che sono circolate ancora prima dell’arrivo di Silvia Romano a Ciampino».
A proposito delle ultime cose che hai detto, è inevitabile parlare del polverone mediatico alimentato anche da molti giornali e quotidiani. Per quanto nella vicenda ci siano molti punti bui, che andranno sicuramente analizzati nel tempo, qual è la sottile linea che divide la verità del rapimento di Silvia Romano dal rispetto della sua privacy (soprattutto in giorni emotivamente intensi per lei in primis)?
«La cosa più importante, in questo momento, è salvaguardare il benessere di Silvia. Perdonami una battuta: se ci fossimo concentrati di più sul fatto che Silvia al rientro desiderasse della pizza, non saremmo improvvisamente diventati tutti esperti di sindrome di Stoccolma, conversioni religiose e islamismo. Quest’ultimo per l’ennesima volta mischiato indiscriminatamente nel calderone del terrorismo, come se si trattasse di una cosa sola».
Nelle prime settimane della pandemia di coronavirus siamo stati sommersi da una retorica proto-nazionalista e unitaria. Non meriterebbe proprio il rientro di Silvia uno spiraglio, come hai dichiarato anche tu in questi giorni, di unità nazionale e felicità condivisa? Quanto l’appartenenza al mondo delle Onlus fa precipitare la vicenda di Silvia Romano in una spaccatura politica forse irragionevole? Pensiamo anche alle critiche alla ragazza per essere partita in Africa ancora nelle prime fasi del rapimento, anche da personalità insospettabili.
«Si tratta delle solite speculazioni imponderabili da parti di chi probabilmente non ha ancora capito, o non vuol capire, cosa voglia dire aver vissuto per diciotto mesi in quelle condizioni. L’importante, riferendomi anche al discorso su media e giornalismo di poco fa, ma anche nella politica, è fare bene il proprio mestiere: non correre dietro alla notizia. Per esempio, la voce che è girata nelle ultime ore sulla sua presunta gravidanza».
Se, paradossalmente, Silvia Romano fosse ritornata in Italia convertita non all’islam col nome di Aisha, ma cattolica e col nome di Maria, sarebbe cambiato qualcosa?
«Si sarebbero concentrati ancor di più sulla polemica del riscatto di cui parlavamo poco fa. Chi straparlava nelle prime fasi del rapimento è lo stesso che straparla anche alla fine della vicenda. Dichiarazioni e sciacallaggi che probabilmente, e per fortuna, tra qualche giorno passeranno di moda, sostituiti dalla nuova notizia del giorno.
Lasciamo i soliti noti in balìa della loro follia e occupiamoci veramente di Silvia, perché possa presto tornare ad avere una vita normale».