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Spettacolo

Favolacce, fiaba nera della periferia romana

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Andrea Damiano

Il panorama cinematografico mondiale sembra apparentemente congelato. Mentre le piattaforme online, come Netflix, continuano a rilasciare costantemente nuovi prodotti, il cinema ha subito un grave stop, causato dalla chiusura forzata delle sale. Gran parte dei film previsti per la stagione primaverile/estiva è stata rimandata ai prossimi mesi. Alcune pellicole hanno ricevuto però una distribuzione online, tramite i servizi di noleggio streaming. Se negli Stati Uniti è toccato a pellicole di cui non si aspettavano particolari exploit al botteghino, in Italia è uscito da poco Favolacce, secondo lavoro dei fratelli D’Innocenzo.

Nonostante i due registi non fossero inizialmente favorevoli a un rilascio via web, il distributore TIMvision ha optato per questa modalità per seguire la scia del successo di critica ottenuto al Festival di Berlino, dove il film ha ottenuto il premio per la miglior sceneggiatura. È andato così ad occupare uno spazio lasciato vuoto da due mesi dalla carenza di nuovo materiale.

La trama

Nel quartiere Spinaceto, all’estrema periferia della capitale, storie e drammi familiari si intersecano in un racconto nero, sporco e a tratti grottesco. I fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, dopo il felice esordio con La terra dell’abbastanza, tornano a raccontare gli ambienti della Roma malfamata, distaccandosi però da una serie di dinamiche già viste.

Se il loro primo film bene si inseriva nell’immaginario, ormai troppo abusato al cinema, della periferia dei palazzoni, dei piccoli criminali, dello spaccio e del degrado urbano, Favolacce mostra un mondo distante dalla norma italiana. Spinaceto si presenta come una sobborgo all’americana, con le villette a schiera, le grigliate nel giardino. Si ricrea un non-luogo, non identificabile a pieno con la realtà contemporanea di Roma se non per lo spiccato accento dei protagonisti. Gli ambienti dove si muovono i personaggi sono freddi, asettici, creano sconforto e destabilizzano lo spettatore. I D’Innocenzo inseguono Lanthimos e la scuola greca nel mettere in scena una compostezza formale nella regia, nella composizione di un’immagine definita, eppure gretta, sporca, che ricerca il dettaglio dell’orrido, in una maniera però troppo estetizzante e poco sentita, rispetto a come avviene nel cinema di Harmony Korine (altra influenza per i due registi).

I personaggi

I personaggi di Favolacce sono marionette che si districano su questo palcoscenico ben costruito e pensato. Possono distinguersi in due macro gruppi: gli adulti e i bambini. Gli adulti sono indistinguibili. Le figure dei due padri di famiglia, di cui uno è interpretato da Elio Germano, si assomigliano sia nelle fisicità che nella psiche. Pur essendo apparentemente non di matrice criminale, i personaggi sono forieri di pensieri depravati, rozzi, talmente neri da inquinare il mondo attorno a loro e, di conseguenza, l’innocenza dei figli.

Sono questi ultimi il piatto forte della pellicola. È nei loro rapporti con il proprio mondo interiore, in subbuglio e a disagio per il cambiamento e la crescita, ma soprattutto in quelli con gli adulti, antagonisti morali e fisici, che si scopre il gioco del confronto del film con l’impianto narrativo favolistico. Come suggerisce l’uso di un narratore onnisciente, la dimensione della fiaba è al centro degli intrecci messi in atto dai fratelli D’Innocenzo. Maturano però uno sguardo pessimista, catastrofico e senza alcuna redenzione né possibilità di salvezza. Mettono in scena una contro-favola, sempre in bilico tra il realismo e lo scetticismo dello spettatore, che esplode nel finale negazionista nei confronti della narrativa del film.

Leggi anche: Tiger King e la narrazione nella quarantena.

La critica

Favolacce sta ricevendo elogi quasi unanimi dal mondo della critica e da gran parte del pubblico. È il segno della riuscita volontà di allontanarsi dal già visto e perseguire un immaginario differente, pur adeguandosi di fatto a necessità produttive circa i luoghi e i protagonisti delle vicende, ancora fortemente ancorati a una dimensione romanocentrica della cinematografia italiana. I D’Innocenzo realizzano, al netto di qualche difetto in scrittura, un film che non parla alla contemporaneità storica e sociale, come cercano di fare diversi “cineasti delle periferie”, e come loro stessi avevano fatto nel loro esordio. Il film compie un discorso metacinematografico. Sfrutta gli elementi del realismo per imporre, spesso anche troppo forzatamente, l’idea registica e di politica cinematografica dei due cineasti.

Non è sbagliato dunque, come ultimamente si legge spesso da parte della stampa e degli esperti di settore, considerare i D’Innocenzo nuovi Autori, quanto sarebbe il momento di scardinare questo obsoleto e controproducente sistema di incensamento dei cosiddetti grandi autori italiani, in favore dello sviluppo di correnti produttive per allargare la sfera immaginifica della cinematografia italiana.

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Andrea Damiano

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