Nell’arco della sua lunga carriera, trascorsa per la maggior parte in Italia, Cristian Ledesma è stato spesso sinonimo non solo di qualità ma pure di professionalità. Arrivato in Italia giovanissimo, da ragazzino prodigio si è trasformato con velocità disarmante in una certezza del rettangolo di gioco. Sudore, garra, tecnica, assist, gol. Nulla si è fatto mancare in carriera, compresa una piccola esperienza con la Nazionale italiana. Proprio con lui abbiamo parlato non solo di alcuni aspetti fondamentali del mondo del calcio ma pure della sua carriera. E, inevitabilmente, dei personaggi e degli eventi che ne hanno segnato la strada.
Lazio, Zeman, Nazionale, giovani: il calcio secondo Cristian Ledesma
Hai trascorso la maggior parte della tua carriera in Italia con Lecce e Lazio. Due squadre che oggi, seppur in posizioni di classifica differenti, offrono idee di calcio molto gradevoli. Quali pensi possano essere gli obiettivi futuri di questi due team e come valuti il loro progetto tecnico?
«Per quel che riguarda il Lecce, conoscendo Liverani e vedendo le partite, sta esprimendo un’idea di gioco concreta e pure rivoluzionando il concetto di squadra che vuole salvarsi, che si pensa si debba salvare solo con la fase difensiva. Il Lecce sta dimostrando che si può fare anche in maniera diversa. Se riesce a continuare con questo progetto di prendere giocatore di esperienza più giovani, penso possa tornare a essere una realtà importante come quando ci giocavo io.
La Lazio quest’anno secondo me è a un secondo step dell’era Inzaghi. Lui ha iniziato bene, poi nella scorsa stagione ha avuto uno stop, alcuni giocatori non hanno reso come prima e non si sono riconfermati. Quest’anno partiva non da zero ma è riuscito a creare una squadra più matura, consapevole della propria forza. Tutto ciò l’ha guadagnato sul campo. Bravi giocatori e società a diventare maturi, non è facile in Serie A».
A proposito di Liverani, cosa pensi del suo lavoro? Alla Lazio di fatto sei stato il suo erede e l’hai avuto come allenatore anche alla Ternana.
«Mi ha impressionato il suo modo di trasmettere le proprie esigenze come allenatore a prescindere dai risultati. Era arrivato in un momento in cui eravamo ultimi e quasi spacciati e ha risollevato la situazione però senza modificare le esigenze delle squadra, a prescindere del risultato, sempre con lo stesso tono di voce. Questo non l’ho riscontrato in tutti gli allenatori, è una dote che lui ha. Lo considero un futuro grande allenatore».
Negli anni salentini hai avuto modo di lavorare con alcuni allenatori che, per motivi differenti, risultano piuttosto iconici, tra cui Delio Rossi e Zdenek Zeman. Che ricordo hai di quegli anni e chi è stato più importante per la tua crescita come calciatore?
«Il più importante è stato sicuramente Delio Rossi, con lui sono diventato un professionista. Dopo l’esordio in Serie A nemmeno mi convocò nella partita successiva, era il suo modo per portare avanti la crescita dei giocatori, non stava lì a darti spiegazioni. L’ho avuto diversi anni come allenatore, prima a Lecce e poi alla Lazio. Di Zeman ne avevo sentito parlare parecchio, ha un modo di lavorare tutto suo. Non lo discuto, sull’aspetto umano però non mi ci sono trovato molto bene. Certo, il suo calcio per chi giocava nella mia posizione era bello: avevi sempre compagni che si muovevano contemporaneamente, passaggi di prima. Non parlerei della parte fisica: io avevo 20 anni e ovviamente volevo dare tutto. Anche con Rossi avevamo fatto preparazioni tostissime, pure in seguito con Petkovic alla Lazio, arrivavamo sfiniti la sera. Sicuramente però Zeman mi ha fatto conoscere un altro modo di vedere il calcio».
Leggi anche: Zemanlandia è viva e lotta insieme a noi
Per la Lazio sei considerato una bandiera, con il tempo diventasti uno dei centrocampisti più validi del campionato. Qual è l’aspetto del trasferimento in un club così importante che ti ha fatto migliorare dal punto di vista delle performance?
«Venire in una città come Roma che vive il calcio in un certo modo già ti fa cambiare, ti fa vivere in modo diverso. Nelle radio si parla 24 ore su 24 delle squadre, i giornalisti passano da 3 a 20 in ogni partita o agli allenamenti. La pressione cambia e cresci anche grazie a quello. Era quello che sognavo fare questo tipo di salto. L’aspetto più difficile era abituarsi il più presto possibile, questi ambienti non hanno tanto tempo da dare ai giocatori, ti devi adattare subito».
A un certo punto l’avventura biancoceleste sembrava finita, poiché sei stato tuo malgrado protagonista di una querelle contrattuale con la società, venendo poi reintegrato da Reja al suo arrivo. Puoi raccontarci come ti sei sentito durante quel periodo di inattività forzata?
«Fisicamente non fa testo, psicologicamente è stata dura. Mi allenavo da solo o in gruppo ristretto in orari diversi dagli altri, la domenica stavo seduto sul divano. A livello psicologico è stata dura, molto difficile. Adesso posso dire che c’è stato un problema e si poteva fare meglio da entrambe le parti. Ho sofferto sicuramente tanto perché noi calciatori viviamo per la partita, quella è stata la parte più difficile. In questo periodo però ho avuto modo di scoprire la stima dei tifosi della Lazio nei miei riguardi, nonostante non mi vedessero in campo».
Della Lazio sei stato capitano, hai conquistato trofei, giocato coppe europee. Qual è il segreto per restare tanti anni in un solo club e proporsi costantemente su livelli eccelsi?
«Non adagiarsi su quello che è il passato. Roma è una città dove ti devi riconfermare sempre, non ci scordiamo che alla Lazio hanno giocato campioni di livello altissimo. Ogni anno bisogna confermarsi per andare oltre e dare qualcosa di più. Se arrivi giovane, giocando in Serie A – il campionato più difficile al mondo, secondo me – cresci partita dopo partita. Quello ti dà esperienza e voglia di migliorare ogni anno, il segreto è la mentalità di non pensare a quanto hai già fatto».
Al tempo stesso, hai avuto tanti compagni in quegli anni nello spogliatoio. Ce n’è uno che ti abbia fatto esclamare: ‘questo ragazzo è davvero un fenomeno’?
«Sicuramente Matuzalem, con una testa un po’ diversa era un giocatore da squadre di livello altissimo. Per ciò che gli ho visto fare in partita e allenamento era un giocatore da Barcellona o da un’altra squadra di alto profilo. Aveva carisma ed esperienza. Anche André Dias: arrivato tardi in Italia, secondo me meglio di lui c’era solo Thiago Silva nel periodo in cui giocava in Italia. Aveva forza, era cattivo, bravo nel colpo di testa, tecnicamente non era male, anche in fase d’impostazione».
Una parentesi purtroppo molto corta è quella che riguarda la Nazionale italiana: un’amichevole con la Romania e poi più nulla. Col senno di poi, sei deluso dal fatto di esser stato convocato soltanto per un’occasione o hai visto quell’unica opportunità come un premio alla carriera?
«Certamente io desideravo quell’opportunità. Secondo me quando vai in Nazionale e poi non torni sono due le opzioni: o non piaci, o non eri quello che si cercava nel progetto. Ma io non ho rimpianti perché è stato comunque un momento bellissimo».
Leggi anche: Nessuno tocchi l’Italia di verde vestita
Hai sempre avuto una visione di gioco fuori dal comune. Quale credi sia stato l’assist più bello fornito nel nostro campionato?
«Forse contro il Bologna, al Dall’Ara, per Rocchi. Lo ricordo sempre perché è uno dei quelli che fai perché sono naturali, non mi ricordo neanche di aver visto il suo movimento, un taglio su cui era arrivato persino in ritardo. Altri due assist che ricordo bene sono quelli contro il Palermo per Sculli, due nella stessa partita».
Nel tuo ruolo il calcio propone sempre più abbondanza ma anche minore qualità di espressione. Allo stato attuale delle cose, secondo te chi è il nuovo Cristian Ledesma?
«Ormai questo ruolo, per passaggi è fase difensiva, sembra sparito. Non si cerca più quel tipo di calciatore, si va più su un mediano o una mezzala, si gioca sul dinamismo più che sulla tecnica. Dopo il ritiro di Pirlo quel ruolo è praticamente sparito, anche per volontà degli allenatori. Difficile trovare un giocatore con quelle caratteristiche».
Adesso segui i più giovani, che nel mondo del calcio ricevono tante indicazioni piuttosto contrastanti su come emergere. Tu cosa puoi dire a un ragazzino che si affaccia al mondo del pallone?
«Deve avere la voglia, prima di tutto, di impegnarsi, imparare e rispettare gli altri. Qualche settimana fa Paolo Maldini, durante un’intervista, ha detto una cosa bellissima: il calcio a 8 anni ti fa vivere momenti unici. Ti confronti con altre etnie, hai delle regole da rispettare. Sotto questo aspetto il calcio è uno sport unico. Direi che i ragazzi di oggi dovrebbero avere solo voglia di cercare di migliorarsi e portare in campo soltanto le loro aspettative, non quelle dei genitori. Perché quello è un problema serio, uno zaino enorme e pesantissimo che può fare dei danni».