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L’America “non respira” ancora

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Lorenzo Ricchitelli

«Non riesco a respirare». Questa è la frase che George Floyd, afroamericano di 46 anni, ha ripetuto con insistenza negli ultimi istanti della sua vita. Il 25 maggio a Minneapolis, Minnesota, il mondo è stato testimone di un altro disumano episodio di razzismo. George Floyd è morto in seguito a un arresto da parte della polizia, effettuato con una procedura non proprio convenzionale, come testimonia un video (di forte impatto) ormai virale. Dopo essere stato fermato da ben quattro agenti per una sospetta guida non sobria, uno dei poliziotti ha letteralmente soffocato l’uomo sdraiato a terra. Le forti immagini hanno scosso gli Stati Uniti e il mondo intero.

È pensabile vivere ancora in una società che permette questa totale violazione dei diritti umani? Gli Stati Uniti non hanno ancora compreso che progresso economico e sociale vanno di pari passo? Se andiamo a guardare i precedenti, tanto cari al sistema giuridico anglo-americano, la risposta è chiara.

Leggi anche: Ci sarà giustizia per George Floyd?

George Floyd, simbolo di una storia americana intrisa di razzismo

Conseguenza di questo episodio sono gli scontri che da tre giorni e tre notti stanno mettendo Minneapolis a ferro e fuoco. Anche uno dei commissariati della città è stato oggetto della rabbia dei protestanti. Lo sdegno si è presto allargato a macchia d’olio nelle grandi città americane, tra cui New York (con almeno trenta arresti). La storia statunitense racconta che George Floyd non è il primo e non sarà l’ultimo a essere vittima dell’odio razziale. Senza andare troppo indietro, basti pensare che questa lotta iniziò proprio con un Presidente, Abraham Lincoln, quasi duecento anni fa. Tornando a tempi recenti, abbiamo diversi episodi che testimoniano questo “male” che affligge l’America.

Le rivolte del 1992, 1997 e 2001: l’America dell’oppressione

La notte del 3 marzo 1991 il tassista afroamericano Rodney King venne fermato dalla polizia di Los Angeles. Una volta sceso dalla vettura, cinque agenti lo pestarono con i manganelli, nonostante l’uomo fosse inerme e sdraiato a terra. Quell’episodio fu la miccia che scatenò la famosa rivolta di Los Angeles, con una settimana di scontri che misero a ferro e fuoco la città californiana. Le vittime stimate furono 63, di cui la metà morte direttamente per mano della polizia.

Il secondo episodio di nota dopo i fatti di Los Angeles avvenne cinque anni dopo. La notte del 24 ottobre 1996 il diciottenne afroamericano TyRon Lewis morì per mano di un poliziotto bianco, nella città di St. Petersburg, in Florida. La polizia contenne le rivolte in due giorni, con danni e feriti ma fortunatamente senza vittime. Ancora quattro anni dopo, la città di Cincinnati vide un’altra vittima del razzismo. La mattina del 7 aprile 2001 il diciannovenne Timothy Thomas perse la vita per un colpo alla testa, sparato da un agente. Tre giorni di scontri sconvolsero Cincinnati, con molti danni ma nessuna vittima.

Gli eventi del 2014

Alcuni cartelli nelle proteste contro l’amministrazione Trump. Fonte: pexels.com

Nonostante questi precedenti, lo spettro di questo mostro non abbandonò gli Stati Uniti, anzi si intensificò nel 2014. In quell’anno vi furono tre vittime afroamericane, morte per mano della polizia. A novembre, il dodicenne Tamir Rice fu ucciso a Cleveland da un colpo di pistola, poiché un poliziotto scambiò la sua pistola ad aria compressa per un’arma effettiva.

Lo sdegno fu senza precedenti, poiché il mondo si chiese come fosse possibile, nonostante tutte le possibili giustificazioni, che i poliziotti colpevoli di aver sparato in un parco a un bambino fossero successivamente assolti dalle accuse. Pochi mesi prima l’adolescente Michael Brown morì per un colpo d’arma da fuoco. L’autore fu un poliziotto della contea di Ferguson, in Missouri. Anche in questo caso, le accuse verso il poliziotto caddero e da qui nacque la rivolta di Ferguson, che portò all’arresto di oltre ottanta afroamericani.

La nascita dello slogan “I can’t breathe”: lo sport e il razzismo.

L’episodio che però scosse il mondo fu identico a quello che ha visto protagonista pochi giorni fa George Floyd. Nel dicembre 2014 il quarantaseienne Eric Garner morì per asfissia, dopo un controllo da parte della polizia. Le immagini del video sono fortissime: l’uomo strangolato che grida «I can’t breathe», tenuto comunque con forza dall’agente di polizia. Nonostante le tangenti prove di quello che può essere definito un vero e proprio omicidio, il poliziotto in questione ne esce completamente pulito.

Questa volta però non fu una rivolta, ma qualcosa di più grande a scuotere il mondo. Proprio quella frase divenne uno slogan utilizzato dalle superstar afroamericane di ogni sport. Colui che è tuttora portabandiera di questa protesta è la superstar NBA LeBron James. Durante il riscaldamento di una partita del campionato di basket, LeBron scese in campo proprio con una maglietta nera con la frase urlata da Eric Garner (recentemente riproposta sul suo profilo Instragram). James ispirò varie manifestazioni di protesta, come il giocatore NFL Colin Kaepernick, il quale si inginocchiò durante l’inno americano prima di una partita. Moltissimi giocatori afroamericani nel 2017 imitarono quel gesto, durante un periodo di protesta contro Trump.

Leggi anche: Che fine ha fatto il razzismo: il mostro abissale dormiente.

Dunque le superstar iniziarono ad utilizzare il loro status “privilegiato”. Questa pratica ha molti altri riscontri nella storia. In passato l’essere un atleta non garantiva un trattamento di favore, soprattuto se si era afroamericani. Nei Giochi Olimpici di Monaco del 1936 Jesse Owens vinse quattro ori in una sola giornata, portando la bandiera americana sull’uniforme. Nonostante questa impresa sportiva, l’allora Presidente americano  Franklin Delano Roosevelt si rifiutò di incontrarlo dopo la premiazione.

Qualche Olimpiade dopo, precisamente a quella di Roma del 1960, un diciottenne Cassius Clay vinse l’oro nella boxe per gli Stati Uniti. Tornato nella sua Louisville andò a cena in un ristorante, dove però un cameriere lo cacciò perché era un “non bianco”. La storia, poi smentita, vuole che il futuro Muhammad Alì gettò, in preda alla rabbia, la medaglia nel fiume. Dunque neanche mettere il proprio fisico, sportivamente, al servizio del proprio Paese è riuscito a salvare questi uomini dalla discriminazione.

Tornerà mai l’America a respirare?

Scorcio della città protagonista delle rivolte di questi giorni. Foto: pexels.com

Gli esempi storici e l’episodio di George Floyd dimostrano che il razzismo ancora affligge il tessuto sociale degli Stati Uniti, sopratutto perché molto spesso la legge ha “sorvolato” su episodi che vanno oltre l’abuso del potere della divisa. Le immagini di Minneapolis in fiamme mostrano quanto sia forte il senso di oppressione della comunità afroamericana, che è stata tale da costringere il richiamo della guardia nazionale.

Purtroppo gli studi fatti sulla violenza verso gli afroamericani non sembrano dare ancora speranza. Il tasso di controlli della polizia sugli afroamericani a Minneapolis è di 2,46, più del doppio di un valore nella norma. Questo si rispecchia anche nella aspettativa del reddito medio di una famiglia media: nel 2016 uno studio stimava circa 171.000 dollari di reddito per una famiglia bianca americana, ma per una nera era di 17.600 dollari.

Anche la sproporzione di questi dati mostra quanto radicato sia il problema razziale in America. Dopo l’arresto in diretta del giornalista CNN Omar Jimenez, la situazione è più tesa che mai nella capitale del Minnesota. Significativo è l’intervento dell’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani Michelle Bachelet:

Basta con gli omicidi degli afroamericani. Gli Stati Uniti devono agire per fermare questi abusi da parte della polizia.

Queste parole mettono gli Stati Uniti nell’occhio del ciclone, poiché constatano quanto il governo sia incurante dei diritti della minoranza afroamericana. La speranza per una nazione più giusta è che il messaggio delle superstar e le proteste popolari colgano nel segno. Purtroppo, come sembra, l’avere in questi tempi una presidenza repubblicana, come quella di Trump, rende difficile l’idea di una realtà in cui finalmente l’America possa “nuovamente respirare”.

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Lorenzo Ricchitelli

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