Gli Stati Uniti, nell’immaginario comune, vengono considerati come la terra delle possibilità, della libertà e dei sogni. Alcuni, poi, invidiano il sistema della giustizia americano e, in particolare, le tutele che questo riserva alle forze dell’ordine. Diversamente − si dice − dal nostro Paese. Malgrado l’idilliaca immagine di molti, gli Stati Uniti sono uno dei Paesi con il più alto tasso di violenza al mondo. Questa non è unicamente esclusiva della criminalità. L’altra faccia della medaglia di un sistema che, fra i propri cardini, vanta il pugno di ferro nei confronti dei criminali, è il dilagare di azioni violente da parte della polizia.
Addirittura, si definisce il fenomeno in questione police brutality. Negli ultimi anni, infatti, sono diverse le notizie di violenze da parte della polizia americana. In particolare, tra quelle nei confronti di minoranze etniche che hanno avuto risonanza mondiale, ultima è quella che ha visto coinvolto George Floyd, afroamericano di 46 anni. Alla sua morte hanno fatto seguito numerose e diffuse proteste sfociate e, affianco a queste, vere e proprie azioni di rivolta popolare che, ad oggi, non accennano a fermarsi. Inutili, in questo senso, i recenti sviluppi giudiziari della vicenda che hanno portato all’arresto, con l’accusa di omicidio, di Derek Chauvin, il poliziotto che materialmente blocca a terra George Floyd così come l’arresto, per complicità, degli altri tre agenti coinvolti nei fatti. Le manifestazioni, allora, continuano in tutto il mondo così come continua l’appoggio di numerose personalità pubbliche.
Occorre, allora, chiedersi se queste notizie siano una minoranza e, soprattutto, se tali fatti vengano puniti una volta scemato il polverone mediatico di uno o dell’altro caso.
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I precedenti: Michael Brown
Come spesso succede, i casi che rimbalzano all’attenzione mediatica non sono che la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più ampio. Molti episodi, siano essi di minor gravità o di minor risalto, non raggiungono l’attenzione dei media internazionali. Non vanno oltre la cronaca locale o, peggio, sono completamente ignorati. Limitandosi all’ultimo decennio ricordiamo tutti il famoso caso di Michael Brown, ragazzo di appena diciotto anni ucciso dalla polizia di Ferguson, Missouri, il 9 agosto 2014. Un agente di polizia fermò il giovane perché sospettato di aver preso parte a una rapina in un mini-market nella stessa mattinata.
Da parte dell’agente coinvolto partirono a questo punto diversi colpi di pistola, di cui sei colpirono mortalmente Michael Brown. Questo episodio ha provocato diverse proteste e manifestazioni pacifiche a Ferguson, ma anche numerosi episodi di violenza e vandalismo. Tali proteste ripresero in maniera ancor più violenta in diversi Stati d’America una volta comunicata la decisione del Gran Giurì. Non vi erano elementi di prova sufficienti per incriminare Darren Wilson, il poliziotto implicato nel caso.
Eric Garner
Nello stesso anno e sempre con protagonista un afroamericano, è emersa nuovamente l’eccessiva violenza da parte della polizia. La violenza è culminata in questo caso con la morte di Eric Garner in un susseguirsi di eventi che, purtroppo, ha degli inquietanti paralellismi con la morte di George Floyd. Garner era un venditore di sigarette di contrabbando di Staten Island, New York. Durante un arresto l’agente Daniel Pantoleo lo blocca brutalmente, a seguito del rifiuto di essere ammanettato, prendendolo per il collo.
Successivamente, lo stesso Pantoleo ed altri agenti fermarono il sospettato a terra con il peso del loro corpo. In questo frangente, nonostante Garner fosse disarmato e avesse urlato di non riuscire a respirare, questi non mollarono la presa causandone la morte. L’intera scena, così come nel caso di George Floyd, era stata ripresa da alcuni passanti. Nel video si può chiaramente sentire la vittima dire più volte «I can’t breathe». Queste parole divennero poi lo slogan di numerose proteste e movimenti. Nonostante il video e i numerosi testimoni, così come nel caso di Micheal Brown il Gran Giurì ha ritenuto di non poter procedere nei confronti del poliziotto che, comunque, è stato licenziato dal Corpo di Polizia di New York.
Tamir Rice
Nello stesso anno la polizia uccide un dodicenne, Tamir Rice, mentre era intento a giocare con una pistola finta. Anche in questo caso il Gran Giurì ha assolto i poliziotti intervenuti. Ciò, come detto dallo stesso procuratore della Contea, per «una tempesta perfetta di errori umani». La centrale, infatti, aveva comunicato alle autorità intervenute la presenza di un uomo di colore, forse ventenne, che estraeva e puntava una pistola sui passanti. L’omissione, in questo caso, è stata quella di riportare che la pistola poteva essere finta, così come segnalato dagli stessi passanti. Quest’ultimo caso, seppur si discorsi dai precedenti, appare utile per comprendere il livello di tensione che, ormai da diversi anni, vi è fra la polizia e la comunità afroamericana.
Il caso di George Floyd
Da ultimo, arriviamo all’evento di cronaca di questi giorni. Parliamo della morte di George Floyd, un uomo di 46 anni, durante un controllo da parte della polizia di Minneapolis. Più precisamente, alle ore 20 del 25 maggio, una pattuglia ha fermato George. Il motivo di tale fermo, al momento, non è ancora stato chiarito. In un primo momento la polizia ha dichiarato che fosse, o almeno apparisse, sotto l’uso di sostanze alcoliche o stupefacenti. Successivamente, invece, che l’uomo era sospettato di aver utilizzato una banconota falsa in un negozio locale. Comunque, hanno dichiarato gli agenti, Floyd appariva violento e resistente all’arresto.
Quest’ultima versione, così come le prime dichiarazioni sullo stato dell’uomo, è stata poi smentita da alcuni video che lo riprendono come tranquillo e collaborativo. Gli agenti riferiscono che George Floyd ha rifiutato di scendere dalla macchina e, per questo, lo hanno ammanettato. Fatto sta che nell’evolversi dei fatti Floyd, disarmato, è stato bloccato a terra. Per la precisione gli è stato premuto, per diversi minuti, un ginocchio sul collo da uno degli agenti intervenuti. Da questo punto la vicenda è stata ripresa da diversi passanti. Mentre era a terra, bloccato, si può sentire l’uomo gridare frasi come «non respiro», «non riesco a respirare», «non uccidetemi» fino, in ultimo, a vederlo perdere i sensi.
Non solo. Si sentono anche diverse persone urlare agli agenti di fermarsi o di controllargli il polso, purtroppo senza alcun risultato. L’agente, impassibile, non accenna alcun movimento e mantiene la pressione del ginocchio anche dopo che la vittima perde i sensi. George Floyd muore poco dopo. Secondo la ricostruzione fornita dalla polizia, per un “incidente medico” senza alcun accenno allo svolgersi dei fatti e, in particolare, al blocco prolungato delle vie respiratorie dell’uomo.
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Le proteste
Immediatamente sono iniziate le proteste a Minneapolis, che si sono diffuse a macchia d’olio in tutto il Paese. Diverse manifestazioni sono state organizzate a New York, Memphis e Los Angeles, così come numerose celebrità si sono esposte condannando apertamente i fatti e invocando giustizia. Emblematiche le parole del sindaco di Minneapolis che, sul fatto, ha dichiarato: «Essere nero negli Stati Uniti non dovrebbe essere una sentenza di morte». Come spesso avviene, alle manifestazioni pacifiche, che hanno visto partecipare in modo unito migliaia di persone, si sono affiancate vere e proprie situazioni di rivolta.
Ci sono stati, infatti, scontri con le forze dell’ordine, incendi e perfino furti in negozi; e, in tutta risposta, lanci di lacrimogeni e arresti da parte degli agenti intervenuti dopo che è stato dichiarato lo stato di emergenza nella città di Minneapolis. Nella città si vivono ore di tensione. Il sindaco Jacob Frey, così come la famiglia della vittima, ha più volte inneggiato al mantenimento della calma e allo stop alle violenze, seppur auspicando che si faccia fatta luce sullo svolgersi dei fatti e la vittima possa ottenere giustizia.
Allo stato dei fatti, nei confronti dei quattro poliziotti coinvolti nell’accaduto nessun capo d’accusa è stato ancora formulato. Questi ultimi, infatti, sono stati licenziati dal comando di polizia ma, al momento, sono liberi di circolare.
La questione razziale
Gli eventi appena descritti e, da ultimo, il caso di George Floyd vedono l’accomunarsi di vittime afroamericane e di responsabili appartenenti alle forze di polizia. Al di là degli omicidi, diversi movimenti, fra cui il Black Lives Matters, da sempre denunciano una situazione di soprusi da parte delle forze dell’ordine che, molte volte, si esauriscono in controlli ingiustificati o, comunque, in una maggiore ostilità da parte della polizia nei confronti di cittadini di colore senza necessariamente sfociare nella cronaca nera. Un pregiudizio, in America, che ha profonde radici storiche. È frutto di una questione mai veramente risolta: quella della schiavitù, abolita solo nel 1865.
Nonostante sia un’epoca passata e nonostante i suprematisti sulla carta non esistano più, in realtà non sono mai completamente spariti (così come non sono mai spariti i nostrani “nostalgici”). Nonostante, dunque, il Nord abolizionista abbia avuto la meglio rispetto al Sud schiavista, dopo un secolo, in gran parte degli USA un nero e un bianco non sono sullo stesso piano nemmeno per normali esigenze di vita come l’Università, il lavoro o i trasporti pubblici. Nonostante Martin Luther King, Malcom X e il Black Power, oggi gli Stati Uniti si trovano a far fronte a un razzismo sotteso. Per contrastarlo è sorta la già citata associazione Black Lives Matter.
La legislazione
Oltre alla questione razziale, poi, gran parte del problema è imputabile alle leggi in materia di legittima difesa e, di conseguenza, al modo di agire delle forze di polizia in negli USA. Tali leggi, che prendono il nome di stand your ground laws, operano in diversi Stati. Molto semplicemente, consentono alla vittima di un crimine, anche solo presunto, di potersi immediatamente difendere con la forza senza prima provare a far desistere l’aggressore. Lo scopo di tali leggi, di per sé, è molto semplice: un uomo non deve scegliere fra la propria difesa e la prigione.
Queste norme però, sono state oggetto di numerose critiche. Garantendo la libertà penale in caso di autodifesa, finiscono con il giustificare omicidi volontari. L’insieme di questi due elementi porta a una conclusione che, purtroppo, si traduce nei fatti di cronaca in analisi. La polizia, così come a volte privati cittadini, a causa di una visione distorta della società che percepisce da troppi anni le minoranze come “sospette o intrinsecamente pericolose”, reagisce in via preventiva. Tale reazione, che trova giustificazione nelle leggi sulla legittima difesa, laddove non vi fosse alcun pericolo reale si traduce in un omicidio. Questo crimine, infine, non viene perseguito proprio perché si basa sulla percezione, errata, di un pericolo.
Il problema della società odierna (non solo americana) è proprio questo e ognuno di noi è chiamato quotidianamente ad affrontarlo. La paura del diverso, in questo caso basata sulla razza, porta a ritenere pericoloso chiunque si discosti dal nostro canone di “normalità”, senza nessun altro motivo, in uno schema percettivo distorto. Mentre il mondo oggi è sconvolto da un video che riprende in diretta la morte di un uomo, gli Stati Uniti devono, nuovamente, affrontare uno dei loro più pericolosi fantasmi. Vi è, infatti, una profonda frattura fra la polizia e la comunità afroamericana imputabile a un’infelice e radicata storia di discriminazioni.
Quando in un tessuto sociale è presente un così profondo sentimento di frustrazione e di impotenza è giusto condannare la violenza che accompagna le proteste. È però parimenti necessario analizzare chi, per primo,dovrebbe essere chiamato a garantire la pace sociale, ma nei fatti agisce con soprusi e in spregio alla legge. Il problema presente negli Stati Uniti è ben più profondo del singolo episodio e le sommosse di questi giorni lo dimostrano. Basta una scintilla per accendere una polveriera sopita ormai da troppo tempo.
Mentre la crudezza emerge di primo acchito nel video e, così, sconvolge nell’immediato, ciò che deve turbare l’animo nel profondo è, invece, la morte di un uomo per mano di chi è chiamato a rappresentare la legge. Ancora una volta.