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Spettacolo

Lorenzo Jovanotti, un docutrip in bicicletta: Non voglio cambiare pianeta

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Andrea Borio

Tra i prodotti che le varie piattaforme d’intrattenimento ci stanno offrendo, in questi giorni di quarantena, ha sicuramente destato una certa attenzione il docutrip di Jovanotti Non voglio cambiare pianeta. Pensato da Jovanotti inizialmente come filmato semi-amatoriale, è stato successivamente messo a disposizione gratuitamente su RaiPlay a partire dal 24 aprile. Qui ritroviamo l’eterno ragazzo della musica italiana nelle insolite vesti di improvvisato documentarista di viaggio. Si tratta, infatti, di un racconto che ripercorre il viaggio in bicicletta fatto da Jovanotti, tra gennaio e febbraio di quest’anno, dalla costa pacifica del Cile fino a Buenos Aires.

Forme della narrazione: cavalcando la scia del travel vlogging

Il racconto di questo viaggio dal sapore epico è affidato a un filmato diviso in 16 brevi video (dai 10 ai 15 minuti ciascuno). Le riprese sono state girate da Jovanotti stesso, con una GoPro montata sul manubrio della bicicletta e con il suo cellulare; e successivamente sono state montate da Michele Lugaresi. Il format segue ampiamente il modello del travel vlogging che da anni spopola su YouTube (anche con risultati di qualità pregevole; basta pensare a Nicolò Ballini, aka Humansafari, e a Stefano Tiozzo, i cui video non hanno niente da invidiare a certi documentari professionistici) e che è ormai diventato la principale modalità di narrazione nel (passatemi questa orrenda definizione) mondo del travel.

Le caratteristiche sono note e facilmente identificabili: inquadratura costante in soggettiva, a cui si alterna quella puntata dal vlogger su se stesso (per intenderci, in stile selfie); montaggio veloce; riprese perlopiù lo-fi (non sempre, si vedano a titolo d’esempio gli esempi sopra citati); e una narrazione che intreccia  un’aneddotica spicciola (storia, monumenti principali e curiosità riguardanti il luogo che si sta raccontando) con l’esperienza personale della persona che sta viaggiando. I risultati che questo format raggiunge sono ottimi, riuscendo ad arrivare a un pubblico sempre più vario e stratificato. È facile spiegarne il motivo: l’immedesimazione del fruitore, che sembra vivere in prima persona quello che gli viene raccontato. Certo, non è niente di nuovo, è una strategia vecchia tanto quanto l’impulso a raccontare storie, ma che sicuramente trova campo fertile nell’ambito delle riprese amatoriali e semi-amatoriali.

Dunque, questo è il modello a cui Jovanotti sembra ispirarsi per il suo docutrip. A queste caratteristiche formali bisogna riconoscere almeno altri due elementi imprescindibili. Il primo è la musica. I video, infatti, sono accompagnati da vere e proprie perle musicali (Love in Portofino di Buscaglione, Mi Buenos Aires Querido di Carlos Gardel, per citarne un paio), registrate in acustico appositamente da Jovanotti, come una sorta di colonna sonora. Il secondo è la poesia. Ogni episodio, infatti, termina con un brano di poesia recitato, in sottofondo alle immagini, da Jovanotti. Tra le poesie scelte, non si può non menzionare almeno El perezoso, poesia del poeta cileno Pablo Neruda, comparsa per la prima volta nella raccolta del 1958 Estravagario, il cui ultimo verso ritorna più volte nel corso del viaggio, fino a diventare il titolo stesso del docutrip di Jovanotti: «No quiero cambiar de planeta».

Il viaggio: dalla costa cilena a Buenos Aires, 4000 km attraverso le Ande

Inconfondibile paesaggio andino.

Il viaggio di Jovanotti comincia da La Serena, modesta città costiera a nord di Santiago del Cile. Risale poi la stretta lingua di terra cilena verso nord lungo la famosa Ruta Nacional 5: il tratto cileno della leggendaria Panamericana, la strada che collega idealmente e fisicamente (eccetto pochissimi tratti) tutto il continente americano, dall’Alaska alla Tierra del Fuego. La prima parte del viaggio si conclude ad Antofagasta, 900 chilometri a nord di La Serena, moderna città portuale del Cile settentrionale. Qui Jovanotti è raggiunto da Augusto, suo storico amico e proprietario di un negozio di biciclette a Forlì, insieme al quale percorrerà il tratto più arduo del viaggio: l’attraversata delle Ande.

I due ripartono da Antofagasta ed entrano nell’ostile territorio del deserto di Atacama. Le temperature massime sfiorano i 50° centigradi (con un’escursione termica spaventosa, che durante la notte fa scendere il termometro sottozero), la strada lentamente si alza fino a raggiungere i 4500 metri del passo andino al confine con l’Argentina, e l’ossigeno sembra sfuggire al respiro affannato dalla fatica. Una terra desolata e inospitale, un «Far West» (come viene più volte definito da Jovanotti) che si allarga lungo la linea simbolica del Tropico del Capricorno. Chilometri di terra arida, senza acqua né piante, che si distende tutto intorno, mentre il cono grigio della strada corre via tra le cime più alte delle montagne ancora bianche di neve.

Superata la frontiera argentina, la strada scende tra i canyon colorati della regione di Salta, nel nord dell’Argentina. E i lineamenti della gente sono ancora mescolati a quelli cileni e della vicina Bolivia. A Salta Jovanotti rimane di nuovo in solitaria (Augusto, infatti, rientra in Italia in aereo), e comincia l’ultima parte di viaggio. Attraverso la storica pianura argentina (la Pampa dei mitici Gauchos), nel clima torrido della violenta estate australe: fino a Córdoba e poi Buenos Aires. 4000 kilometri che scorrono via epici e veloci attraverso le immagini che la telecamerina di Jovanotti cattura dal manubrio della sua bicicletta.

Simboli e immaginari

Sicuramente tirare le somme di questo viaggio e del suo racconto per immagini, senza sfociare nella banalità, non è facile, ma è possibile; partendo dal fatto che si tratta sicuramente di un esperimento riuscito, dato il grande consenso di pubblico raggiunto. Il docutrip di Jovanotti funziona soprattutto perché riattiva una simbologia e un immaginario legati al viaggio che, in questo momento storico, fa breccia nelle emozioni di molte persone. Ora che fisicamente non possiamo viaggiare, almeno possiamo farlo con la mente. Sembrerà scontato, ma una parte del suo successo deriva senz’altro da questo.

A questo aggiungiamo che il docutrip di Jovanotti si inscrive perfettamente in un universo narrativo che si è da tempo consolidato come emotivamente efficace. Si pensi soprattutto a film come Into the Wild. È il fascino ancestrale per la natura selvaggia, per l’estrema maestosità di certi angoli di questo nostro maltrattato pianeta. È un discorso vecchio come l’uomo (pensate al sublime kantiano, o all’incipit del secondo libro del De Rerum Natura di Lucrezio, per fare due esempi), e che oggi viene riproposto sempre più spesso, in chiavi più o meno interessanti. Ma è anche, e soprattutto, il gusto per le imprese fisiche, che, per esempio, ogni anno spinge migliaia di alpinisti a rischiare la vita alla scalata all’Everest. Certe cose si fanno soltanto per essere poi raccontate. Il viaggio di Jovanotti si inserisce in questo quadro di riferimento. Niente di nuovo sotto il sole, quindi?  In parte sì.

Le ragioni di un successo: l’avventura e il viaggio della mente

Tuttavia, questo racconto ha almeno due pregi che lo salvano, che lo allontanano da una vulgata legata al viaggio e al modo di raccontarlo che sta cominciando a essere sempre più stantia. Il primo è l’idea del viaggio come avventura, come qualcosa di essenzialmente pericoloso. Come un’uscita momentanea dalle noie che compongono il tempo principale delle nostre vite. È qualcosa che ha a che fare con il principio del romanzesco; inteso nel senso di qualcosa che per la sua singolarità o stranezza ci appare come non appartenente alla vita di tutti i giorni. È uno degli estremi attorno a cui oscilla il piano delle nostre fantasie e dei nostri desideri.

Il secondo pregio riguarda l’idea di viaggio come esperienza principalmente solitaria, personale: mentale. Come qualcosa che ha molto più a che vedere con gli arcani meccanismi della nostra psiche, che con il movimento delle nostre gambe. Il viaggio come strumento d’accesso a fasi differenti della vita, come un passaggio esistenziale. Jovanotti, infatti, si lancia in questo viaggio soprattutto per lasciarsi alle spalle i bagni di folla degli acclamati e discussi Jova Beach Party della scorsa estate; e per tentare di aprire nuovi capitoli della sua vita e della sua carriera. Viaggiare, al di là di tutte le mistificazioni possibili, può anche essere un rito di passaggio; altrimenti è specchio per le allodole, per facili discorsi di scoperta e conoscenza: ma è inutile.

Scatto di uno dei tanto acclamati e discussi Jova Beach Party della scorsa estate.

Conclusioni

È grazie a queste due intuizioni che possiamo, forse, passare oltre ai difetti e alle ingenuità che emergono qua e là nel corso della visione. A volte, infatti, capita che Jovanotti pecchi di troppa retorica e superficialità. Il tema dell’ecologia è sicuramente uno dei più urgenti della nostra epoca, ma forse meriterebbe un approfondimento maggiore rispetto a 30 secondi di discorso pressapochista sui relitti di bottiglie di plastica sopra una spiaggia. Parlarne tanto per parlarne? Forse è meglio tacere del tutto. A questo si aggiungono i mille discorsi sconclusionati che Jovanotti ci propina in ogni episodio. Riflessioni, pensieri, aneddoti di vita, impressioni e deliri si mescolano insieme, talvolta senza portare da nessuna parte. Un modo di raccontare che, tutto sommato, gli perdoniamo. Perché in fondo è proprio quello che ci aspettiamo da Jovanotti.

Il docutrip di Jovanotti, Non voglio cambiare pianeta, è un racconto leggero e genuino. L’immaginario on the road (la perenne immagine della strada che corre diritta davanti alla telecamera) ci incanta e ci stordisce, come in un trip psichedelico di una botta da acido, e si intreccia con le voci e le musiche di Jovanotti, riuscendo a raggiungere – a tratti – vette di inaspettata bellezza. Dove la felicità, come si sente nelle battute finali dell’ultimo episodio, è vista, soprattutto, come «una sensazione di movimento». E per un attimo, siamo tentati di crederci.

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Andrea Borio

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