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Smart working, un cambio di prospettiva

Published by
Daniel Bonfanti

Lo smart working dovrà diventare un’abitudine nelle nostre vite

Le conseguenze che il coronavirus ha portato con sé si stanno rivelando estremamente complicate per la vita di molte persone, sia sul piano sociale sia su quello economico. Il lockdown ha costretto parte della popolazione mondiale a rimanere chiusa in casa, cambiando le abitudini di molti. Se da un lato l’impossibilità di vedere amici e parenti è stata un’imposizione dura da affrontare, dall’altro questo periodo è stato anche il momento per scoprire nuovi modi di interagire e, soprattutto in Italia, l’occasione per approfondire il rapporto con il mondo digitale.

Un concetto prima sconosciuto ai più, ma diventato ben presto familiare nella vita di molte persone, è quello di smart working. Come capita spesso di constatare rispetto a temi che riguardano la digitalizzazione, anche per quanto riguarda la diffusione del lavoro agile l’Italia si posiziona tra gli ultimi Paesi in Europa. Il lockdown però ha cambiato molti aspetti della nostra vita, tra cui sicuramente quello del lavoro. Ci sono molti motivi per cui questa pratica dovrebbe essere mantenuta anche quando il coronavirus sarà solo un ricordo. 

Il premier Conte ha spesso parlato nelle sue conferenze della necessità che le aziende attivassero progetti di smart working per i propri dipendenti. Foto: profilo Instagram @giuseppeconte_ufficiale.

Smart working in Italia: qualche dato

Secondo i dati dell’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano, i lavoratori smart in Italia nel 2019 erano circa 570.000, in crescita del 20% rispetto all’anno precedente. Questa realtà è ormai affermata nelle grandi imprese (il 58% di esse ha avviato progetti di questo tipo), ma ancora limitata nella pubblica amministrazione (16%) e nelle piccole e medie imprese (12%). La crescita più consistente è stata però proprio all’interno della pubblica amministrazione (+6%). Il settore ha accolto con maggior favore questo cambiamento anche durante il lockdown, raddoppiando i progetti da remoto in virtù di un trend positivo in atto già da prima del coronavirus. 

Leggi anche: La scuola deve sopravvivere al coronavirus.

Se si considera però il panorama europeo l’Italia è decisamente indietro in confronto ad altri Stati. Ci sono distanze che appaiono addirittura incolmabili rispetto ai Paesi del Nord Europa. Secondo i dati dell’Eurostat, infatti, solo il 2% dei lavoratori italiani agisce da remoto, contro la media europea dell’11,6%. In Svezia e in Olanda la percentuale è intorno al 31%. 

Un problema culturale?

I motivi di questa resistenza al lavoro agile da parte delle imprese italiane sono principalmente due. Da un lato una generale arretratezza del nostro Paese nel campo del digitale, che riguarda sia il diritto di accesso a Internet sia l’innovazione – che procede a rilento – nel campo aziendale e nella Pubblica Amministrazione. Dall’altro lato il motivo è culturale. Riguarda la concezione del lavoro come un luogo presso cui recarsi, una giornata lavorativa impostata sull’orario canonico delle otto ore e un forte accentramento delle responsabilità aziendali nelle mani di pochi. Il dipendente dell’azienda di rado è coinvolto nei processi decisionali. I compiti e le mansioni sono strutturati gerarchicamente a seconda dei ruoli ricoperti. La conseguenza è che il lavoratore non è valorizzato nelle sue competenze e non ha un riconoscimento per gli obiettivi che raggiunge. Solo il 19% dei lavoratori si dice soddisfatto del proprio lavoro, contro il 31% dei lavoratori smart. 

Un cambio di prospettiva

Il lockdown ha però imposto alle aziende la messa in atto di progetti di smart working, che sono stati accolti come un’assoluta novità da chi era abituato ogni giorno a recarsi presso il proprio posto di lavoro. La risonanza mediatica rivolta allo smart working durante questo periodo è la prova di come in Italia esistesse una sorta di resistenza culturale, prima che digitale, al lavoro agile.

Abbiamo assistito a un vero e proprio cambio di prospettiva che sembra possa durare anche in futuro, sia nell’interesse delle aziende sia in quello dei lavoratori. Innanzitutto i benefici economici per le imprese sono indubbi. Garantire ai lavoratori la possibilità di lavorare da casa è un modo per risparmiare. Si pensi solo a buoni pasto, indennità di trasferta, alimentazione delle postazioni di lavoro. In secondo luogo anche la produttività stessa delle aziende aumenta. Un lavoratore più responsabilizzato è sicuramente più entusiasta dei propri compiti, come confermano i dati citati poc’anzi. 

Inoltre i vantaggi, sia sul piano individuale sia su quello sociale, sono evidenti. Il risparmio per il lavoratore che agisce saltuariamente o stabilmente da remoto si possono calcolare sui costi degli spostamenti e del pranzo, oltre che in alcuni casi anche in quelli dell’abbigliamento. Queste spese incidono sia dal punto di vista economico sia, soprattutto, di stress fisico e mentale. Anche l’ambiente, ovviamente, ne gioverebbe. Meno macchine per le strade significa meno smog nelle città e meno affollamento sui mezzi pubblici. 

L’equilibrio necessario

I benefici dello smart working sono dunque evidenti. La pratica del lavoro agile non può però sostituire in toto il mondo del lavoro come siamo abituati a conoscerlo. Innanzitutto, alcuni lavori non possono essere svolti in smart working. Non si intendono ovviamente solo mansioni che prevedono una presenza fisica nei luoghi di lavoro, ma anche occupazioni che vengono abitualmente svolte in ufficio. Ad esempio i lavori creativi, che richiedono una partecipazione di gruppo e uno sviluppo comune di idee. Questo confronto costante tra più menti è restituito solo in parte dalle videoconferenze.

O anche occupazioni che prevedono la gestione di dati sensibili, per i quali è necessaria una protezione che non potrebbe essere garantita da remoto. O ancora, a proposito della didattica a distanza in università, la partecipazione attiva alle lezioni, che rimane uno dei principi su cui si fonda l’apprendimento, soprattutto quello delle materie umanistiche che continuano ad avere un peso culturale fondamentale nel nostro Paese. Anche in questo caso, però, una telecamera nelle aule potrebbe aiutare gli studenti lavoratori e quelli pendolari, che eviterebbero così di perdere lezioni importanti a causa di altri impegni.

In secondo luogo, lo smart working totale potrebbe condurre a una sorta di alienazione, a un’incapacità di staccare la spina dal lavoro. In sostanza potrebbe causare l’effetto opposto di quello che si cerca di ottenere con il lavoro agile. Ecco perché questa pratica potrà diventare un’abitudine virtuosa solo se le aziende saranno in grado di bilanciarla nel modo corretto per il proprio personale.

Un futuro meno tossico

Il momento per un sostanziale cambiamento nel mondo del lavoro però è proprio quello che stiamo vivendo ora. Il lockdown e la crisi economica dalla quale saremo travolti dovranno rappresentare la spinta necessaria ad un cambiamento non tanto del lavoro, quanto piuttosto della vita dei lavoratori. Mai come in questo momento storico le aziende hanno bisogno di metter al centro dei progetti i propri dipendenti, responsabilizzandoli e delegando loro importanti obiettivi da perseguire. Questi compiti dovranno essere interpretati più come target da raggiungere che come mansioni utili a far passare il tempo delle otto ore. Per raggiungere questo scopo è necessario che i lavoratori possano finalmente riprendere in mano la gestione del proprio tempo e della propria vita, non solo scegliendo da quale posto lavorare, ma anche e soprattutto vedendo ridotto il proprio carico di lavoro in funzione di un benessere che sia sempre più collettivo e meno individuale.

Lo smart working dovrà essere parte di un processo di riduzione della tossicità del mondo del lavoro. Una tossicità che non riguarda solo lo smog nelle città, ma soprattutto i rapporti umani e sociali. 

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Daniel Bonfanti

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