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Tech&Games

Verrà la fine e sembrerà di essere in un videogioco

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Alessandro Rosa

Per tutta la prima metà di questo 2020 i riflettori sono stati, giustamente, puntati sopra l’epidemia di COVID-19, un evento che in un modo o nell’altro ha segnato la vita di tutti noi. Media di ogni genere si sono prodigati a raccontare e spiegare gli effetti sociali della pandemia, le sue ripercussioni sulla psiche umana, sull’economia globale, sulla politica internazionale e locale. Per mesi siamo stati abituati al bollettino giornaliero della protezione civile, abbiamo imparato che cos’è una curva epidemiologica, e abbiamo (più o meno) capito cosa significa analizzare i dati per trarre delle previsioni. Sul COVID-19 è stato speso un fiume di parole come per ben pochi altri eventi fino ad ora. A qualcuno però non sono passate inosservante le somiglianze tra l’emergenza di Coronavirus e un’altra pandemia, meno conosciuta ma in grado comunque di affliggere milioni di persone. Il motivo per cui se ne è sentito parlare di meno è presto detto: si tratta di una epidemia virtuale, avvenuta all’interno del popolare videogioco online World of Warcraft (Blizzard Entertainment, 2004), e diventata fin da subito oggetto di studio da parte della comunità scientifica. Possiamo imparare ad affrontare la prossima emergenza studiando i videogiochi online?

Pandemie fantasy

Per chi non lo conoscesse, World of Warcraft è un videogioco di ruolo online ambientato in un vasto mondo fantasy popolato da elfi, umani, orchi e altre creature in tema con l’ambientazione. Gli utenti possono creare un proprio alter ego ed esplorare queste lande fantastiche in compagnia di migliaia di altri giocatori, rendendo il proprio personaggio sempre più forte col passare del tempo. Un fenomeno tutt’altro che circoscritto, in grado di tenere incollati allo schermo milioni di persone arrivando a un picco di ben 12 milioni di utenti paganti, e che tutt’ora continua ad essere giocato da uno zoccolo duro di appassionati. Per mantenere l’utenza sempre interessata e partecipe, gli sviluppatori propongono ciclicamente nuovi contenuti e zone da esplorare. L’aggiornamento del 13 Settembre 2005 introdusse svariate novità, tra cui una nuova area dal nome piuttosto cacofonico Zul’Gurub. I giocatori che arrivavano alla fine del livello dovevano confrontarsi con Hakkar, una potente creatura in grado di lanciare un particolare incantesimo capace di ridurre progressivamente la salute di chi lo affrontava. L’effetto più grave di questo malus, chiamato Corrupted Blood, era che poteva trasmettersi da giocatore a giocatore semplicemente tramite la prossimità. Nello scenario progettato dagli sviluppatori questo particolare effetto negativo serviva a rendere la sfida più interessante e avvincente, ed era stato programmato per scomparire una volta finito l’incontro. Ma per un banale errore di programmazione le cose andarono molto diversamente, e qualcuno riuscì a portare con sé la maledizione lanciata da Hakkar.

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L’elevata “contagiosità” dell’infezione, difatti, scatenò una pandemia in piena regola. Per contrarre il Corrupted Blood era sufficiente passare vicino a un utente già contagiato, e in un ecosistema virtuale abitato da milioni di persone che scorrazzano in totale libertà questo si traduce in una diffusione a macchia d’olio istantanea. Le città principali del mondo fantasy, fondamentali punti di incontro per svolgere numerose attività, divennero rapidamente delle zone critiche, ed entrarvi significava essere sicuri di ammalarsi. La situazione era particolarmente difficile per i giocatori di livello più basso, che non erano in grado di reggere al malus, col risultato di finire rapidamente al tappeto: game over. Gli sviluppatori consigliarono ai giocatori ancora sani di evitare le città, e agli ammalati di auto isolarsi, in una sorta di lockdown virtuale. Ma in pochi giorni la situazione sfuggì completamente di mano e le città si trasformarono in cimiteri a cieli aperti.

Una schermata di World of Warcraft. Fonte: Flickr.

Il fenomeno, divenuto noto come Corrupted Blood Incident, colpì gli studiosi di epidemiologia e malattie infettive per l’elevata somiglianza con alcuni modelli epidemiologici. Gli autori dello studio, Eric Lofgren e Nina Fefferman già all’epoca sottolinearono come fosse possibile analizzare quanto successo per gestire possibili epidemie (all’epoca si temeva soprattutto la SARS, esplosa pochi anni prima), e durante l’emergenza di COVID-19 sono tornati a raccontare quali lezioni possiamo imparare da questo strano incidente di programmazione. Fin dall’esordio dell’epidemia di Coronavirus abbiamo assistito a una lunga serie di comportamenti irrazionali e imprevedibili, come ad esempio l’accaparramento delle scorte di carta igienica negli Stati Uniti. «Siamo abituati a vedere le epidemie come cose che in qualche modo accadono alle persone […] ma si tratta di un virus che si diffonde tra le persone, e come le persone interagiscono e si comportano e reagiscono alle direttive delle autorità sono informazioni fondamentali» dice Eric Logfren a tal proposito. Il modo in cui le persone reagiscono, il modo in cui sfogano il loro panico è una variabile fondamentale per sviluppare modelli predittivi affidabili. Quando si costruisce un modello epidemiologico, infatti, è possibile inserire un alto numero di variabili (l’infettività dell’agente patogeno, la densità della popolazione, la quantità di spostamenti effettuati e così via), ma anche la simulazione più accurata fa fatica a tenere conto del comportamento umano. Il Corrupted Blood Incident in questo senso è più simile a un esperimento scientifico che a una simulazione.

Tra le similitudini più interessanti tra l’epidemia virtuale e le sue controparti reali, quella che colpì di più gli studiosi fu la distribuzione della propagazione: iniziata da un punto remoto del mondo di World of Warcraft, la malattia dilagò nei centri urbani anzitutto per l’assembramento di persone che ogni giorno si incontravano in queste piazze virtuali.  Ci furono comportamenti poi meno prevedibili ma altrettanto interessanti per gli studiosi. Ad esempio, alcuni giocatori di alto livello misero le capacità curative dei propri personaggi al servizio dei più deboli, mantenendoli artificialmente in vita e organizzando dei veri e propri gruppi di soccorso. A controbilanciare queste buone intenzioni, ovviamente, non mancarono comportamenti di segno opposto, con persone che volontariamente infettavano sé stesse per poi spargere la malattia nelle zone più popolate. Comportamenti irresponsabili e volontariamente dannosi che non sono mancati neanche nel mondo reale.

Materialismo videoludico

Il Corrupted Blood Incident dovrebbe farci riflettere sul significato che stanno assumendo i videogiochi moderni, in particolari quelli con una componente online. Non possiamo limitarci a definirli dei banali passatempi per chi non ha niente di meglio da fare, o semplici modi per sfuggire al grigiore della realtà quotidiana. Sono piuttosto degli ecosistemi complessi, abitati, seppur indirettamente, da persone in carne e ossa che si comportano come tali e che per questo contribuiscono alla creazione di un mondo articolato quanto quello reale. Per questo motivo possono dirci molto su chi siamo e come reagiamo, in particolare nei confronti di situazioni estreme che, fortunatamente, non accadono spesso nella vita reale. Più in generale, ci permettono di dare una sbirciata ipotetica a scenari del tipo what if?, che difficilmente potrebbero essere analizzati se non in maniera del tutto speculativa. Come tutti gli ecosistemi, all’interno di queste community online si viene a creare una sorta di equilibrio, una nicchia che parla un linguaggio specifico, in un sistema dinamico, suscettibile alle variazioni esterne.

Una schermata di Fallout 76. Fonte: Flickr.

Un esempio particolarmente interessante lo fornisce il più recente Fallout 76 (Bethesda Game Studios, 2018), gioco di ruolo online ambientato in un mondo raso al suolo dalla guerra nucleare. In uno degli ultimi aggiornamenti gli sviluppatori hanno deciso di aggiungere un pacchetto di contenuti premium, garantendo a chi paga una serie di accessori unici. La mossa, giudicata da molti utenti ingiusta perché permette di avere vantaggi sostanziali rispetto a chi non vuole investire altri soldi nello stesso gioco, ha scatenato un’ondata di indignazione che si è presto trasformata in una serie di scorribande e violenze virtuali mirate nei confronti dei giocatori paganti. La tensione tra utenti premium e normali è sfociata in un’autentica lotta di classe, creando divisioni e sottoculture che hanno deciso di allearsi per difendere i propri ideali.

Tralasciando gli ipotetici commenti che un Karl Marx potrebbe fare sulla questione, è interessante notare come l’esempio di Fallout 76 dimostri un principio tanto banale della natura umana: siamo disposti a imbracciare le armi anche per cose meramente virtuali, senza una sussistenza fisica reale, e nel farlo riusciamo a tessere intricate relazioni e rapporti personali che finisco per dare luogo a una solida comunità auto sussistente. Il mondo di Fallout si presenta come una landa desolata, distrutta da una guerra non così tanto fredda, dove gli abitanti lottano con l’ambiente esterno e tra di loro per potersi permettere una vita dignitosa, in un conflitto perenne (qualcuno la chiamerebbe una “guerra di tutti”) regolato da quella logica tardo capitalista per cui puoi sopravvivere solo a scapito di qualcun altro. È il mondo di Fallout 76 a somigliare così spaventosamente al nostro, o è il semplice risultato fatalista di quel realismo capitalista teorizzato da Mark Fisher? Forse la fine sarà più silenziosa di quanto ci aspettavamo, senza nessuno scoppio (nucleare?), ma arrivati alle soglie del nuovo decennio non si mai parlato così tanto di crisi e disfacimento come ad oggi.

Leggi anche: Il tramonto della modernità e La guerra di tutti

Soltanto un passatempo?

Nonostante quello videoludico sia un settore in forte espansione, in grado di fatturare circa 130 miliardi di dollari annui, in Italia sembra essere del tutto ignorato e persiste una sorta di stigma nei confronti di questa forma di intrattenimento. Un atteggiamento doppiamente miope, perché rifugge le potenzialità economiche e allo stesso tempo impedisce di analizzare un fenomeno di massa sempre più importante, in particolare per quanto riguarda le comunità videoludiche online. I videogiochi sono ancora additati come “giochi per bambini” (nei casi migliori) o come demoni digitali che rincretiniscono i ragazzini in età puberale. Certo è che, al netto dei parallelismi che si possono trarre tra reale e virtuale, rimane quasi da chiedersi quale sia il reame più abitabile. Gli sviluppatori di World of Warcraft, di fronte al fallimento delle misure di contenimento, riuscirono a salvare il mondo virtuale grazie a un mezzo che noi ancora non possediamo: il reset totale dei server di gioco. Noi di quale pulsante magico disponiamo?

Leggi anche: Non è un paese per videogiochi (e per videogiocatori)

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