Quando la pandemia ci ha travolti, il mondo sembrava essersi fermato. Non ci abbiamo messo molto a realizzare come la pandemia potesse bloccare alcune cose, mentre altre continuavano a fluire inesorabilmente. La violenza di genere è una di queste. Con il lockdown in atto, milioni di italiani sono stato confinati nel loro domicilio. Allo stesso tempo, migliaia di donne sono state costrette a dividere l’appartamento con un partner o un parente violento. Il loro mondo fatto d’abusi non ha mai smesso di girare.
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Dal primo marzo al sedici aprile, le chiamate al centralino anti-violenza nazionale (1522) sono aumentate del 70% rispetto alla media mensile registrata nel 2019. Il centralino dovrebbe rimandare ai centri antiviolenza attivi sul territorio, che hanno però registrato un calo del 50% nelle richieste di aiuto durante i mesi del lockdown, per poi riprendere progressivamente con la fase 2. Quel che è certo è che, restando chiuse in casa, le donne hanno incontrato ulteriori difficoltà nell’indirizzare le loro richieste di aiuto ai centri. Nel 2018, spiega il rapporto Eures 2019 su Femminicidio e violenza di genere, più dell’80% dei casi di femminicidio è avvenuto in famiglia, per mano di un familiare o di un convivente della vittima. L’associazione nazionale D.i.Re, che gestisce più di ottanta centri antiviolenza in tutta Italia, ha denunciato recentemente la carenza dei fondi per il settore.
Discriminazione e violenza di genere
La Convenzione di Istanbul, altrimenti detta Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, è stata approvata in Italia il 19 giugno 2013. Secondo quanto previsto dal documento, dovrebbe esistere un centro antiviolenza ogni diecimila abitanti. Al 2018, questo rapporto è dimezzato. A Roma, dei venticinque posti letto disponibili in tutta la città per le donne che fuggono da violenze domestiche, il centro Lucha y Siesta, situato nel quartiere Tuscolano, ne contava al suo interno il 60%. Attivo dal 2008, a febbraio di quest’anno il centro è stato costretto a chiudere i battenti e l’edificio è stato messo all’asta. La perdita di un tale punto di riferimento sociale dimostra tutti i paradossi di un sistema che discrimina le donne, negando loro il supporto di cui hanno bisogno.
Ma non sono solo le pareti di casa a delineare i confini delle discriminazioni sulle donne. Secondo il Georgetown Institute for Women, Peace and Security, la mascolinità tossica nella società odierna è ciò che detta l’agenda delle rivendicazioni femministe. Ancora oggi, le donne guadagnano in media il 20% in meno rispetto agli uomini. Non solo: più le donne studiano e fanno carriera e più sono colpite dal divario retributivo di genere. Già prima della pandemia, in tutta Europa, le donne in media trascorrevano tredici ore alla settimana in più degli uomini a occuparsi della casa e della famiglia.
Il lavoro riproduttivo e di cura
Con la chiusura delle scuole e lo smart working il lavoro domestico non retribuito è aumentato in maniera considerevole. Tante donne si sono ritrovate a lavorare da casa, occupandosi nello stesso momento dell’istruzione dei figli, dei pasti e delle incombenze domestiche. Nell’epidemia, la violenza di genere si è consolidata in un estenuante carico mentale per le donne. Per molte di esse è e sarà sempre difficile riuscire a conciliare il lavoro retribuito con quello che non lo è. Nemmeno la pandemia ha convinto il governo a dirottare più fondi verso il lavoro di cura, ad esempio sostenendo il welfare degli asili nido.
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Nelle parole del Marxist Feminist Collective, la riproduzione sociale e il lavoro di cura sono tutte quelle attività che rendono possibile la riproduzione, su scala quotidiana, della capacità del lavoratore o della lavoratrice di partecipare al processo produttivo, attraverso il quale genererà poi profitto. Stiamo parlando di infermieri, personale delle pulizie negli ospedali, insegnanti, impiegati dei supermercati, braccianti. Ma anche le mamme, le babysitter, le badanti, i volontari dell’assistenza che hanno distribuito pasti nella pandemia. La loro assenza dal dibattito economico ha dimostrato quanto il profitto prevalga sulla vita stessa. Un ordine sociale che, secondo il collettivo, va assolutamente invertito. Il primo passo, oltre al riconoscimento del valore essenziale che questi hanno nella società, è il loro diritto a un salario dignitoso.
Il femminismo marxista
Le studiose Sara R. Farris e Marie Moïse, su Jacobin, pongono la riproduzione sociale al centro della rinascita dello studio e dell’attivismo femminista degli ultimi anni. Ne indagano il suo valore all’interno della società capitalista, sotto la lente dei marxismi del Novecento. Ricordano lo slogan delle attiviste argentine in occasione dello sciopero dell’8 marzo: «Si nosotras paramos, se para el mundo». Se ci fermiamo noi donne, si ferma il mondo. Secondo l’opinione di Farris e Moïse è il lavoro delle donne, quindi, a consentire la riproduzione di quello stesso sistema che le sfrutta, violenta e uccide ogni giorno. Il problema non risiede nel lavoro di cura in sé, fonte di benessere sociale, quanto nel fatto che esso riproduca la natura stessa del sistema di sfruttamento capitalista.
Un concetto ripreso da Nancy Fraser e Rebeca Martinez in Femminismo per il 99%, identificando il movimento come uno dei fronti della lotta di classe. Contrapposto a quello incarnato da Hillary Clinton, “la variante liberale e individualistica”, le due scrittrici delineano un nuovo femminismo, vicino alla maggioranza delle donne, che siano esse povere, migranti, lavoratrici domestiche o sex-workers. Un movimento che punti a soddisfare i bisogni delle donne, e che non sia incentrato solamente sulle questioni femminili tradizionalmente intese. Un femminismo che pensi in modo più ampio alla società e articoli politiche e programmi per tutte e tutti, riconoscendo i punti di contatto tra le situazioni di oppressione.
Un femminismo, cioè, anticapitalista, intersezionale e internazionalista. Cristina Demaria, professoressa associata all’Università di Bologna e ricercatrice negli studi di genere, cita Angela Davis e l’intersezionalità propria della ricerca accademica femminista. L’idea è immaginare una nuova comunità profondamente interconnessa, che si batta per includere e non per marginalizzare. Confrontarsi con ogni rivendicazione, che sia razziale, etnica o di genere, come anche con ogni progetto politico di resistenza e di cambiamento nel mondo.
La comunità femminista
Demaria, inoltre, apre alla complessità delle posizioni e dei conflitti all’interno del campo femminista, fenomeno per il quale siamo costretti a parlare di femminismi, utilizzando il plurale. Un’analisi incompiuta, che è tuttora necessaria, poiché come diceva Rosa Luxembourg: «Tutto un mondo d’infelicità femminile attende la liberazione». È nello stesso marxismo femminista di Rosa Luxembourg che Silvia Federici, sociologa italiana naturalizzata statunitense, attinge per i suoi studi. In uno di essi, intitolato Il femminismo e la politica dei beni comuni, Federici ci spiega come le comunità non siano altro che il prodotto di noi stessi in quanto soggetti uniti da un interesse comune. In questi termini parla di collettivizzazione del lavoro di riproduzione e delle responsabilità comuni come unico modo per costruire le comunità del futuro.
Una responsabilità che deve essere condivisa anche dagli uomini, attraverso la ridefinizione di un’identità maschile critica verso il modello patriarcale. È quello che cerca di fare l’associazione Maschile Plurale, nata a Roma nel 2007. I temi di cui si discute spaziano dalla sessualità al rapporto che gli uomini hanno con la violenza di genere, la pornografia, l’affettività, la prostituzione. Certi percorsi di consapevolezza possono aiutare gli uomini a mettersi in discussione e, sostenendo il riscatto femminista, intraprendere una lotta comune. In questo modo, si potrà lavorare insieme per la creazione di nuove comunità, libere da ogni discriminazione e violenza di genere.