Si definiscono «un progetto collettivo di divulgazione e confronto su temi di educazione sessuale, socio-emotiva e digitale». Virgin & Martyr è un collettivo giovane, che usa i nuovi media per diffondere consapevolezza e informazione: un approccio positivo, inclusivo, con l’obiettivo di creare uno spazio sicuro e libero da pregiudizi. L’idea nasce nel 2017, si trasforma e arriva a noi come piattaforma di approfondimento e confronto.
Oggi tante voci parlano di cause sociali, di genere, di sessualità. Il rischio è creare confusione, non solo maggior consapevolezza. Nel dialogo con il collettivo abbiamo tentato di chiarire queste dinamiche, facendo luce sul valore dell’attivismo, dell’inclusività e del discorso libero da eufemismi.
Partiamo dal nome del progetto: Virgin & Martyr. Evoca l’archetipo femminile mariano, ma anche un’ambivalenza da romanzo erotico, un’efficace forma di provocazione. Quale significato avete cercato di trasmettere?
«In realtà, la scelta del nome è stata più spontanea che calcolata: le fondatrici del progetto, Greta Tosoni e Greta Elisabetta Vio, si sono conosciute online con l’intenzione di dare vita ad un progetto legato innanzitutto al corpo e alla sua rappresentazione. Partendo dal loro nome in comune, hanno scoperto che la santa protettrice (Margherita d’Antiochia) era vergine e martire. Ci piace pensare che questi termini possano avere diverse interpretazioni e allusioni, e da una parte rappresentano proprio certi stereotipi che nel nostro lavoro di divulgazione ci impegniamo ad abbattere».
La pagina ha ormai un discreto seguito ed è diventata un punto di riferimento per l’educazione sessuale e all’affettività nel panorama social attuale. Come è nata fra voi l’idea di Virgin & Martyr? Quale pensate sia la chiave per una comunicazione chiara e diretta, soprattutto su temi così delicati?
Il nostro intento è quindi quello di contribuire, con ogni mezzo a disposizione, a diffondere educazione. Lavoriamo per renderla il più possibile accurata, aggiornata, inclusiva e accessibile, ma anche ricca di storie personali e spunti di riflessione. Pensiamo che la chiave sia proprio parlare di questi temi da diverse prospettive e in modo semplice, che chiunque possa comprendere e sentire propri, ma soprattutto senza tabù o eufemismi che impedirebbero una comunicazione chiara e diretta. Riusciamo a fare tutto questo grazie alla nostra rete di contributor (professionist* e non), che portano conoscenze, esperienze e spunti in diversi ambiti».
Da qualche anno l’inclusività e la discussione femminista sono diventati temi caldi, noti al grande pubblico. Abbiamo visto strumentalizzazioni della lotta LGBT+ a fini di marketing, grandi aziende tingersi di arcobaleno ad hoc. Abbiamo visto il pensiero femminista calato in guerriglie da social, con una discreta confusione attorno a presunti “fem-baluardi” brandizzati come Freeda e Alpha Woman. Sono il prezzo da pagare per una più larga consapevolezza? È ancora possibile fare informazione attiva e aiutare l’utenza a proteggersi da queste banalizzazioni?
«Il fatto che esistano delle realtà che utilizzano le lotte politiche per fare marketing è un concetto molto diverso da ciò che nella realtà significa fare attivismo. I collettivi femministi, le associazioni LGBT+ e le realtà come la nostra operano sul territorio e online da moltissimo tempo. Solo recentemente stanno iniziando a venire ascoltati grazie alla costanza e alla perseveranza con cui lavorano e cercano di arrivare a un cambiamento.
Il fatto che l’attivismo, la lotta per diritti umani o i temi sociali diventino all’occorrenza una “moda” rischia di portare a una comprensione solo superficiale delle questioni, con il rischio di diventare anche fuorviante o controproducente. Per questo, noi raccomandiamo sempre di farsi domande e affidarsi all’opinione esperta quando si vuole approfondire un tema. Alle aziende e ai brand raccomandiamo di lavorare non solo sulla comunicazione, ma anche su pratiche e politiche interne realmente più inclusive e rispettose delle diversità».
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Come collettivo Virgin & Martyr ha avviato anche un progetto di incontri nelle scuole. Qual è stata la vostra impressione a contatto con i ragazzi?
Quanto peso può avere l’educazione sessuale nel superamento degli stereotipi di genere? Pensate che incoraggiare una narrazione serena e libera da tabù possa riflettersi direttamente sulle strutture sociali?
«Per riuscire a superare gli stereotipi, di qualunque tipo, è fondamentale educarsi e imparare a farsi domande: solo in questo modo si può oltrepassare la comprensione superficiale delle cose. Gli stereotipi sono una scorciatoia che, come esseri umani, utilizziamo per poter comprendere in modo immediato la realtà che ci sta attorno. Non è una colpa, ma se ci fermiamo a queste idee, che probabilmente non abbiamo formato autonomamente ma ci sono state trasmesse da altri e dall’ambiente circostante, rischiamo di perderci dei pezzi.
Come gli altri, anche gli stereotipi di genere sono talmente radicati nella nostra cultura che non è solo una questione di educazione sessuale, ma anche socio-emotiva e digitale. Più se ne parla, più ci si interroga e più consapevolezza si acquisisce: se lo facciamo tutti insieme i tabù e i falsi miti diverranno un lontano ricordo».