«Questa volta il cowboy se ne va davvero». A parlare è Mark Calaway, la persona che ha co-creato una delle gimmick più incredibili, seguite, rivoluzionarie e innovative del mondo del wrestling. La persona sta dicendo definitivamente addio – attraverso l’ultimo episodio del documentario The Last Ride – a The Undertaker, ovvero il personaggio che è stato capace di dargli la gloria eterna nell’universo dello sport entertainment.
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Parlare di Undertaker con numeri e statistiche sembrerebbe riduttivo. Pluricampione del mondo e vincitore di innumerevoli altre cinture, ha avuto una brillante carriera trentennale che lo ha portato a sfidare i migliori del business, a dettare le regole sul ring, a vincere faide importanti e persino a vivere momenti storici, controversi o meno. Tutti con l’attuale WWE, l’ex WWF del suo debutto. Ciò che davvero vale la pena analizzare è il successo di un personaggio che, con il tempo, ha saputo rinnovarsi pian piano. Sia in maniera flebile che con strappi decisi.
Emerso come personaggio dotato di una spirituale consapevolezza, al limite tra la fantascienza e l’inumano, l’Undertaker ha concluso la sua parabola con l’umanizzazione del suo character e l’esposizione di chi lo ha interpretato. Becchino, ministro dell’oscurità, “semplice” entità soprannaturale. Persino biker, nel momento di definitivo allontanamento dalle origini, in un momento in cui tutto il wrestling stava cambiando e aveva bisogno di rinnovarsi, pena il calo di pubblico. La forza del personaggio di Undertaker è stata quella di resistere a ogni sfida del tempo, uscendone sempre più forte e mai smarrito.
Il valore aggiunto è stato l’uomo dietro cappotto e cappello. Calaway ha vissuto anni (ironicamente) nell’oscurità. Nessuna intervista, niente uscite con i colleghi al di fuori del lavoro, pochissime e nascoste apparizioni pubbliche. Tutto per mantenere l’aura temuta e rispettata del suo personaggio, dedicandosi letteralmente anima e corpo a un business che gli ha dato molto ma pure tanto ha preso da lui. Negli ultimi tempi, nonostante la comprensibile fase calante, il mito dell’Undertaker aveva trovato nuova linfa vitale. I fan di wrestling si interrogavano sul perché però continuasse a lottare. D’altornde, l’imbattibilità a Wrestlemania era stata perduta, in primis a causa di Brock Lesnar e poi, come in un potenziale passaggio di consegne (in verità piuttosto mal riuscito), per via di Roman Reigns.
Undertaker, stanco e lento sul ring, era ormai un uomo a tutti gli effetti. Con le sue debolezze, con i timori dissolti negli occhi degli avversari. E, ovviamente, minato da svariati problemi fisici, oltre che dall’età ormai avanzata. I suoi ultimi match sono stati universalmente bocciati. Il sentimento prevalente sembrava essere la pena. Qualcosa che un fenomeno come Undertaker non poteva meritare. L’addio con l’ultimo match “cinematografico” a Wrestlemania forse non è la conclusione migliore del suo viaggio ma aiuta a completare la transizione costruita per riportarlo sul piano reale.
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E lo stesso The Last Ride (titolo del documentario con un senso specifico ma, senza nulla lasciare al caso, anche il nome di una delle mosse più caratteristiche del lottatore) è un piccolo capolavoro, che ha permesso ai fan di wrestling di scoprire il privato ma anche le incertezze, la dolcezza, la vergogna, la gioia e i dolori di un uomo che ha vissuto con un’ombra pesante ma non ingombrante al suo fianco per tantissimi anni.
Destinato a entrare nella Hall of Fame della WWE, Undertaker sarà sempre ricordato come una delle leggende più riconoscibili e note di una disciplina che da sempre mette insieme doti attoriali, creative e fisiche. E proprio Undertaker ha rappresentato per trent’anni, in termini di equilibrio tra queste caratteristiche, il meglio che il wrestling sia stato in grado di dare.
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