Il calcio femminile è uno dei movimenti che ha dovuto subire un brusco arresto a causa della pandemia di Covid-19. La stagione è stata interrotta definitivamente con l’assegnazione dello scudetto alla Juventus, che aveva nove punti di vantaggio su Milan e Fiorentina. Sfortunatamente, infatti, le donne del pallone italiano non godono degli stessi diritti dei loro colleghi maschili. E la situazione contrattualistica del calcio femminile sembra ancora lontana da un accordo che possa consentire le garanzie del professionismo. Abbiamo parlato di questo e altri temi con Benedetta Orsi, giovane attaccante in forza al Sassuolo che insegue – come tante – il sogno di emergere e, soprattutto, di poter svolgere il suo lavoro in maniera sicura e tutelata. Senza pregiudizi o paranoie insensate.
Il calcio femminile, nonostante il boom portato dai recenti Mondiali e dal percorso incredibile delle azzurre, sembra essere percepito ancora come un calcio senza una credibilità costante. Che idea hai maturato sull’argomento?
«Gli ottimi risultati ottenuti al Mondiale dalla nostra Nazionale sono stati sicuramente motivo d’orgoglio e speranza per tutto il movimento. Nonostante ciò, questo difficile periodo non ha permesso la continuità e la visibilità che tutte noi avremmo voluto e probabilmente meritato. Sono emerse tutte le lacune che a oggi hanno fatto sì che il calcio femminile continui a essere considerato dilettantistico, pur richiedendo alle atlete e alle società sforzi e tempi da professionismo».
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Si parla, in tal senso, molto spesso di regolarizzare e professionalizzare il movimento femminile italiano. Secondo te quali sono i motivi per cui ancora questo non è stato fatto? E quante speranze ci sono che tutto ciò possa realizzarsi?
«L’idea che accomuna tutte noi giocatrici, ormai da tempo, sarebbe quella di essere trattate e considerate atlete professioniste.
Il motivo principale per cui questo non è ancora stato possibile penso sia legato all’aspetto economico; non tutte le società hanno la fortuna di essere affiancate al maschile, e quando si presentano problematiche simili alla pandemia che stiamo vivendo, è difficile comportarsi da tali. Sarà sicuramente un percorso lungo e difficile, ma noi continueremo a lavorare per dimostrare che valiamo quello che per ora non ci viene riconosciuto».
Hai mai avuto a che fare, di persona o sui social, con pregiudizi sulla tua passione per questo sport? In generale, ritieni che quello del calcio sia un mondo maschilista?
«Sono tanti i pregiudizi sul mondo del calcio femminile considerato da molti come uno sport per “uomini”. L’unica differenza che può essere degna di essere considerata è la fisicità, e la modalità con cui si pratica questo sport. Se per gli uomini essere un calciatore è un privilegio, per noi donne è pura passione, ma non è questo che può permettere alla gente di continuare a pensare che non sia adatto a noi».
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Prima di giocare a calcio avevi iniziato con il tennis. Nonostante si parli di sport ovviamente diversi, credi che in qualche maniera la tua esperienza precedente abbia rappresentato un aiuto psicofisico per approcciare il mondo del pallone?
«Il tennis è stato determinante per quanto riguarda la rapidità, lo scatto e la capacità di intuire la traiettoria non di una pallina, ma di un pallone. Rimane comunque uno sport totalmente diverso, in quanto non si parla di squadra, ma di individualità, dove un qualsiasi errore, o una qualsiasi vittoria dipendono unicamente da sé stessi. Posso quindi dire sia stato d’aiuto soprattutto a livello fisico data l’intensità degli allenamenti richiesti».
Hai superato una malattia che resta sempre subdola e odiosa da combattere, come il tumore. Che consiglio puoi dare alle persone che hanno avuto la sfortuna di vivere la tua stessa condizione?
«Premetto che nella sfortuna io sono stata fortunata poiché non ho dovuto fare terapie, oltre all’intervento di ricostruzione. È stato sicuramente un periodo difficile, più per la mia famiglia che per me, data la giovane età. Ora come ora rimane il ricordo, una cicatrice, qualche centimetro in meno del mio braccio destro, e la consapevolezza che senza questa brutta esperienza, probabilmente, non mi sarei mai approcciata al mondo del calcio che ora mi sta dando tante soddisfazioni. È difficile dare consigli, ma mia mamma dice sempre: “chiusa una porta, si apre un portone”».
Nonostante la giovane età hai già giocato per tre squadre importanti e raccolto qualche presenza anche in Nazionale Under 19. Qual è stata la gara che, più di tutte, ti ha fatto capire che ce la stavi facendo?
«L’emozione più grande me l’ha lasciata il debutto in Serie B a 14 anni con la Reggiana, società che ha scritto, grazie a Betty Vignotto, parte della storia del calcio femminile italiano. Recentemente, tra le tante gare disputate in questi ultimi anni, una che mi rimarrà sempre impressa è la partita contro l’Inghilterra alla fase élite dell’Europeo. Nonostante fossimo rimaste in nove contro undici e sotto di due goal, non abbiamo mai perso la speranza di potercela comunque fare, dimostrando che l’unione di quel gruppo era più importante delle capacità tecnico-tattiche di ognuna di noi».
Cosa vuol dire per te, a livello emotivo, giocare nella squadra della tua città? Senti una responsabilità particolare o, al contrario, sei ancora più motivata nelle prestazioni?
«Essendo nata a Sassuolo, di famiglia sassolese, giocare nella società della mia città non può che essere motivo di orgoglio e una motivazione in più a far sì che questa squadra raggiunga obbiettivi importanti e mantenga la massima serie».
Allo stato attuale delle cose, pensi che il calcio femminile possa finalmente diventare una realtà apprezzata, accettata e quindi “normalizzata” nel nostro Paese? O forse la strada per tutto questo è ancora lunga?
«Come ho detto prima, la strada sarà sicuramente lunga e altrettanto difficile, ma non per questo smetteremo di crederci e soprattutto far ricredere chi fino ad oggi ci ha viste come semplici dilettanti».
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