Dopo alcuni anni di basso profilo, si ripropone la questione mai risolta del confine territoriale tra India e Cina. I due paesi più popolosi del pianeta si fronteggiano sul tetto del mondo da decenni, in una contesa latente che affonda le proprie radici nei rapporti tra India britannica e Repubblica di Cina all’inizio del Novecento. Se certamente la mancanza di un confine definito è elemento di per sé sufficiente a creare attriti tra Stati, per comprendere la recrudescenza del conflitto è fondamentale analizzare il più ampio contesto internazionale.
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Tensioni e scontri tra Cina e India tra maggio e giugno
Da inizio maggio, Cina e India si accusano a vicenda di violare la sovranità territoriale altrui, costruendo strade e infrastrutture nelle aree contese o a ridosso del lungo (3400 chilometri) confine che le divide, la cosiddetta LAC (Line of Actual Control). La LAC è il confine de facto istituito al termine della guerra sino-indiana del 1962. Il primo scontro risale all’11 maggio, quando circa 150 soldati cinesi e indiani si sono fronteggiati nei pressi di Naku La, nello Stato indiano del Sikkim, incastonato tra Nepal e Bhutan. Non vi sono state vittime: i governi di India e Cina hanno concordato nel 1996 di disarmare le proprie pattuglie di confine precisamente per evitare che incidenti del genere degenerino in più gravi scontri a fuoco.
Il 6 giugno i vertici militari dei due Paesi sembravano aver raggiunto un accordo per allentare la tensione militare sul confine, quando si è verificato l’incidente più grave dal 1967. La sera di lunedì 15 giugno, una pattuglia indiana e una cinese si sono scontrate nella valle di Galwan nell’Himalaya occidentale, a cavallo del confine tra il Ladakh indiano e l’Aksai Chin cinese. La schermaglia ha coinvolto circa seicento soldati di entrambi gli schieramenti ed è stata combattuta con sassi, bastoni e mani nude. Nonostante la natura rudimentale dello scontro, entrambi gli schieramenti hanno contato morti e feriti, primo caso dal 1975. Nuova Delhi ha confermato che venti dei suoi soldati sono deceduti in seguito allo scontro. Pechino ha confermato di aver subito perdite, senza tuttavia divulgare dati specifici.
Puntuale, è arrivato il rimpallo di responsabilità. Per Nuova Delhi, i soldati cinesi avrebbero eretto strutture militari in territorio indiano in aperta violazione dell’accordo del 6 giugno, che i soldati indiani avrebbero distrutto. Per Pechino, i soldati indiani avrebbero per ben due volte oltrepassato il confine con il fine deliberato di provocare una reazione dalle forze cinesi nell’area.
Storia di un conflitto cronico a bassa intensità
Va da sé che nessuno dei due governi vorrà perdere la faccia e ammettere che i propri soldati hanno agito in violazione della legge. Del resto, entrambe le parti rivendicano il diritto sugli altipiani contesi in forza dell’interpretazione diversa data ad alcuni trattati stipulati tra Ottocento e Novecento tra Stati indiani, Gran Bretagna, Tibet e Cina.
L’Arunchal-Pradesh
A est la Cina rivendica i circa 80.000 chilometri quadrati dello stato indiano dell’Arunchal Pradesh (Tibet meridionale secondo Pechino). L’area passò sotto controllo dell’India britannica in seguito all’accordo bilaterale stipulato nel 1914 dalla Gran Bretagna con il Tibet, che tuttavia era ancora formalmente dipendente dalla neonata repubblica cinese. Per Pechino, dunque, il Tibet non avrebbe avuto la facoltà giuridica di stipulare trattati autonomamente. Per questa ragione la cessione non avrebbe valore e l’area apparterrebbe de iure ancora alla Cina.
Il Sikkim
Muovendo verso ovest, i due Stati condividono uno stretto tratto di confine tra Bhutan e Nepal, in corrispondenza della regione del Sikkim. Il Sikkim è rimasto indipendente fino al 1975, quando tramite referendum è diventato il ventiduesimo stato dell’India. Stando alle dichiarazioni ufficiali, dovrebbe trattarsi del confine meno caldo tra Cina e India. Nel 2005 il primo ministro cinese Wen Jiabao affermava che il Sikkim «non è più un problema tra Cina e India». Tuttavia, i fatti contraddicono ampiamente questa versione. Basta una semplice ricerca su Google Maps per vedere come Cina e India abbiano costellato il confine del Sikkim di strutture e punti di osservazione, con buona pace dell’allora ministro Wen.
Inoltre, già prima dello scontro di Naku La dell’11 maggio scorso, l’area è stata sede di almeno due confronti in tempi recenti. Nel 2008 pattuglie cinesi sono sconfinate nei pressi del cosidetto Dito, il punto più a nord del Sikkim, minacciando di demolire le strutture indiane nell’area e suscitando le rimostranze dell’India. Nel 2017, invece, le tensioni sino-indiane si sono riaccese in seguito alla decisione di Pechino di costruire strade nei territorio del Doklan/Donglang, rivendicato assieme al distretto di Haa dal Bhutan con l’appoggio di Nuova Delhi.
Il Kashmir
Il confine di gran lunga più caldo è quello occidentale del Kashmir, ciclicamente teatro di scontri tra le parti – l’ultima volta nel 2019, dopo la decisione indiana di revocare lo statuto di autonomia e di fare del Ladakh una regione a parte. Ai piedi del K2, infatti, si sovrappongono le rivendicazioni di Cina, India e Pakistan. La disputa risale al 1947 quando l’India britannica fu dolorosamente divisa in due Stati indipendenti, uno a maggioranza indù − l’India – e uno a maggioranza musulmana − il Pakistan, comprensivo del Bangladesh. I due Stati si contesero da subito con le armi il territorio del vecchio principato di Jammu e Kashmir. Trovarono nel 1949 un confine de facto sulla linea dell’armistizio (confermato nel 1972).
Nel 1951, la neonata Repubblica Popolare Cinese otteneva il controllo del Tibet, occupando nel processo parte del disabitato Aksai Chin, rivendicato da India e Pakistan. Per Pechino, infatti, il confine coincideva con la linea spartiacque tra il bacino dell’Indo e quello del Tarim (la cosiddetta linea Macartney-MacDonald). Per India e Pakistan, invece, il confine del Kashmir indiano valicava il massiccio del Karakorum comprendendo territori del bacino del Tarim (la linea Johnson). Se con il Pakistan fu raggiunto un’accordo nel 1963 sulla linea Macartney-MacDonald, nel 1962 Cina e India combatterono aspramente per un mese, giungendo a una tregua che poneva il confine di fatto – la Line of Actual Control − sullo spartiacque.
Il contesto internazionale
Entrambe le parti considerano quindi di avere sufficienti giustificazioni per punzecchiarsi se necessario. Nessuno vuole una vera e propria guerra, con i costi e i rischi che comporterebbe. Bastano pattuglie disarmate e sconfinamenti voluti per ricordare alla controparte che si tratta di un confine frutto di armistizio e non di diritto. Ma per capire davvero il significato delle scaramucce di confine sino-indiane è opportuno ampliare lo sguardo allo scacchiere internazionale.
Dopo il secolo di umiliazioni ricevute dalle potenze occidentali (1848-1949) e i cinquanta anni necessari a costruire la propria potenza, la Cina intende riscattare il ruolo di potenza globale che percepisce come suo di diritto. Disegno politico che trova la ferma opposizione degli Stati Uniti, intenti a conservare il proprio ruolo di egemone mondiale. L’Impero di Mezzo, nonostante la notevole potenza militare, ancora non può prendere di petto il complesso militare-industriale statunitense da cui è accerchiato sul fronte pacifico. Il pugno di ferro è utilizzato da Pechino quindi con molta cautela, soprattutto in faccende strettamente domestiche, ad esempio nella gestione dei musulmani uiguri dello Xingjiang. Preferisce all’estero la politica del fatto compiuto – ad esempio nel Mar Cinese Meridionale, dove Pechino costruisce isole artificiali – o le forti pressioni politiche, nel caso di Hong Kong e di Taiwan.
Cina e Pakistan
La Cina intende quindi intende accrescere la propria influenza politica ed economica nel mondo con una scaltra politica estera e massicci investimenti in Paesi terzi. In questo contesto nascono le cosidette “nuove vie della seta” – nome improprio della Belt and Road Initiative, sottoscritta nel 2019 anche dall’Italia – il cui scopo è favorire il commercio con la Cina tramite la realizzazione di scali e infrastrutture in tutto il mondo.
Il protagonismo della Cina tuttavia rende irrequieta l’India, che si sente minacciata nel proprio giardino di casa. La Cina da diversi anni conduce infatti audaci iniziative nell’Oceano Indiano, affermando la propria presenza nei porti di Bangladesh, Myanmar, Sri Lanka e Maldive. Nel 2017 Pechino ha inoltre inaugurato la sua prima base militare all’estero in Gibuti, il piccolo stato africano posto al crocevia tra Mar Rosso e golfo di Aden.
Peggio ancora, per Nuova Delhi, l’accerchiamento cinese coinvolge anche il Pakistan, dove Pechino è stabilmente presente nel porto di Gawdar. La Cina vorrebbe trasformare la valle dell’Indo in un corridoio – attraverso il Kashmir conteso – per le proprie merci, in modo da aggirare il delicato collo di bottiglia rappresentato dallo stretto di Malacca e proiettarsi verso l’oceano indiano e l’Africa. Dal canto suo, il Pakistan vede nella Cina un ottimo contrappeso allo storico e potente rivale indiano.
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Storicamente non allineata, l’India potrebbe ben presto trovarsi ad allacciare un più stretto rapporto con Washington e il mondo occidentale per difendere i propri interessi conto Cina e Pakistan. Non tanto per affinità, quanto più per la regola aurea secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico”.
La faglia himalaiana
Il confine himalaiano è dunque la linea di faglia politica – oltre che fisica – dove gli attriti tra Cina e India trovano sfogo diretto. Nessuno dei due Paesi può fare un passo indietro: manca la fiducia che l’altro faccia altrettanto. La Cina, nella morsa statunitense, non può permettersi di rinunciare in alcun modo al Tibet, cuscinetto che protegge e rifornisce di acqua potabile l’heartland cinese. Allo stesso modo, l’India non può permettere che il potente vicino svalichi, mettendo a rischio la propria frontiera settentrionale e gli Stati cuscinetto di Nepal – già sotto influenza cinese – e Bhutan – vicino all’India. Nuova Delhi non può tollerare sconfinamenti cinesi nel Sikkim, che minacciano lo stretto corridoio che collega l’heartland indiano con le province orientali. O ancora, che la Cina si impossessi dell’Arunchal Pradesh e con esso di parte del bacino fluviale del Brahmaputra, il secondo fiume indiano.
La guerra tra i due colossi asiatici è ancora lontana, ma la tensione è destinata a rimanere alta.