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Spettacolo

Il nome della rosa: quarant’anni dopo

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Andrea Borio

A quarant’anni dalla sua pubblicazione, Il nome della rosa torna in libreria con una nuova edizione. Segno evidente che la lunga scia di successo di questo insolito thriller medievale sembra non essersi ancora esaurita. Scritta quasi per gioco da Eco, e senza grandi pretese editoriali, Il nome della rosa è stato prima di tutto un caso letterario mondiale. È poi diventato il soggetto per l’omonimo film del 1986, diretto da Jean-Jacques Annaud, con la magistrale interpretazione di Sean Connery. E ha concluso la sua parabola di riscritture con la miniserie televisiva dello scorso anno prodotta dalla Rai in collaborazione con l’azienda televisiva tedesca Tele-München. Ora la casa editrice La nave di Teseo (fondata nel 2015, tra gli altri, proprio da Umberto Eco) ci propone una nuova edizione corredata dei disegni inediti e degli appunti preparatori dell’autore. Un’occasione imperdibile per scoprire, o riscoprire, un romanzo che, a quarant’anni dalla sua uscita, non smette ancora di affascinarci.

Il profilo di un intellettuale

Quando Il nome della rosa venne pubblicato, nel dicembre del 1980, Umberto Eco aveva quarantotto anni ed era già un intellettuale di fama e spessore internazionali. Il campo dei suoi studi e dei suoi interessi si estendeva a diverse discipline. C’era, naturalmente, il Medioevo, passione che Eco non abbandonerà mai. Fondamentali furono i suoi studi su Tommaso d’Aquino alla facoltà di filosofia dell’Università di Torino. Studi che lo portarono a mettere in discussione il suo rapporto con la chiesa cattolica; come ebbe a dire, in un’intervista per il Time, l’incontro con Tommaso d’Aquino lo aveva «miracolosamente curato dalla fede».

Più importanti sono stati, dal punto di vista dell’influenza e della risonanza culturale, i suoi studi di critica e teoria letteraria, che lo fecero entrare velocemente all’interno di un fertile dibattito internazionale (tra Italia, Germania, Francia e Stati Uniti). In questo senso, testi capitali sono stati Opera aperta del 1962, che da molti è considerato uno dei manifesti programmatici che diedero vita alla neoavanguardia letteraria del Gruppo 63; e Lector in fabula del 1979, fondamentale contributo alle teorie sulla ricezione letteraria degli anni Ottanta.

Ma Eco è conosciuto, soprattutto, grazie ai suoi studi sulla cultura di massa e sui mass media. L’interesse per questi argomenti si concretizzò non soltanto nella redazione di saggi miliari, come la geniale Fenomenologia di Mike Bongiorno del 1961; ma anche nel suo lavoro all’interno dell’Università di Bologna, dove fu tra i fondatori dei primi corsi di laurea in DAMS e in Scienze della Comunicazione. D’altro canto, Umberto Eco è stato tra i padri della Semiotica in Italia. Disciplina che studia i segni che costituiscono il repertorio di significazioni con cui gli uomini si rapportano con la realtà; e che proprio in quegli anni stava cominciando a porsi all’attenzione degli studiosi di materie umanistiche.

Un caso letterario: Il nome della rosa e il successo planetario

La Sacra di San Michele, all’imbocco della val di Susa, ispirò Eco per le descrizioni del romanzo.

Umberto Eco è stato un intellettuale onnivoro e completo, capace di andare oltre l’esasperante frammentazione del sapere umanistico. Era dotato di quell’ubiquità conoscitiva che lo faceva avvicinare ai grandi maestri del rinascimento italiano. Ma a questa ampiezza di studi corrispondeva, altresì, la straordinaria capacità di raggiungere (sebbene in modi diversi e con diversi piani di lettura) un ampio orizzonte di pubblico. Eco non era soltanto uno specialista che scriveva o parlava per specialisti. Ha rappresentato, piuttosto, uno di quei rari esempi di intellettuali in cui la profondità di veduta ha saputo tradursi in chiarezza comunicativa.

Caratteristica che si rispecchiata anche nel modo in cui Il nome della rosa è stato accolto durante questi anni. Fin dal primo momento l’esordio letterario di Eco è stato capace, come pochi altri romanzi italiani precedenti, di valicare i confini del nostro paese e riscuotere una lunga lista di consensi. Una risonanza internazionale che, in seguito, soltanto Roberto Saviano (con il romanzo Gomorra del 2006) ha saputo eguagliare.

Ma al di là dell’estensione geografica di questo successo (con più di 50 milioni di copie vendute nel mondo, in oltre 40 traduzioni), Il nome della rosa ha saputo catalizzare il favore quasi unanime di pubblico e critica. Oltre ai numeri impressionanti, sono numerosi i riconoscimenti. Nel 1981 vince il Premio Strega. Il quotidiano francese Le Monde, nel 1999, lo inserisce nella lista de «I 100 libri del secolo». Secondo il The Guardian rientrerebbe nei «1000 libri che ognuno dovrebbe leggere». Il film del 1986 ne amplifica la fortuna. E mentre il successo planetario si estende, la maggior parte dei critici ne osanna l’arguzia linguistica e l’ironia, l’erudita ricostruzione storica e le trovate narrative. Insomma, Eco sembra mettere tutti d’accordo.

Leggi anche: La misura del tempo. L’atteso ritorno dell’avvocato Guerrieri.

I livelli di lettura

La grandezza de Il nome della rosa sta nella pluralità di livelli di lettura che il testo permette. Caratteristica che è allo stesso tempo la ragione di un così ampio successo. Umberto Eco aveva passato quasi trent’anni della sua vita a studiare testi letterari, aprendoli e smontandoli per capire come funzionassero; arrivava all’esordio letterario con la consapevolezza di chi conosce fino in fondo gli strumenti del mestiere. Benché questa premessa non sempre dia esiti virtuosi.

Eco gioca con l’idea che il romanzo sia «una macchina per generare interpretazioni». E quindi si sbizzarrisce a intrecciare chiavi di lettura differenti e complementari tra loro. Il motore dell’azione è, lo si è già detto, il motivo giallo: una serie di misteriosi delitti si consuma tra le mura di un’abbazia d’inizio Trecento, sulle montagne tra Piemonte, Liguria e Francia. Il giallo è il genere pop per eccellenza; ma secondo Eco è al contempo il genere più “metafisico” di tutti, perché introduce il problema della verità e della sua ricerca.

A fare da cornice a questa struttura di fondo c’è l’universo medievale ricostruito da Eco. Dove imperversano le dispute filosofiche e teologiche; l’orizzonte cristiano si frammenta in una costellazione di ordini e sottordini clericali; insorge il problema costante dell’eresia (ed emerge soprattutto la vicenda relativa all’eresiarca Fra Dolcino); e viene recuperato l’immaginario tardo-medievale, fatto di usi, superstizioni, gioie e patimenti. Cornice in cui si inserisce anche la geniale trovata filologica del secondo libro della Poetica di Aristotele. Una delle più grandi lacune del mondo antico, che Eco recupera per infittire di mistero le vicende della storia e strizzare l’occhio al lettore colto.

L’epopea della conoscenza e l’ironia del fallimento

Ma se il vero fulcro della narrazione si capirà presto essere la biblioteca dell’abbazia (luogo interdetto e misterioso che sembra avere a che fare con la scia di delitti), allora emerge con chiarezza un’ulteriore chiave di lettura. La biblioteca dell’abbazia è dal punto di vista sia spaziale che metaforico un labirinto: epopea della conoscenza, il più delle volte destinata allo scacco. È in questo senso che si attiva l’ironia travolgente e dissacrante che permea tutto il romanzo.

Ironia che sommerge la vacuità delle questioni attorno a cui i signori della chiesa sprecano il loro tempo, le loro energie e la loro vita; mentre i sommovimenti della storia continuano a svolgersi, il più delle volte ignorati e incompresi. Lettura che oggi, nel dispiegarsi degli eventi attuali, torna a parlarci con significati ulteriori e rinnovata urgenza.

Lo stesso epilogo della vicenda, con il parziale fallimento dell’indagine dei protagonisti Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk, metterà in luce la precarietà della ragione umana di fronte ai misteri che ci circondano. In questo senso, Eco recupera la lezione di altri grandi maestri del genere giallo (da Gadda a Sciascia). I quali erano ben consapevoli che il migliore dei gialli è quello che non conclude mai del tutto; che non esiste un’unica causa né un unico colpevole; e che il più delle volte la realtà sfugge ai nostri tentativi di comprenderla.

A proposito di Sciascia, leggi anche: Il giorno della civetta: genesi del racconto di mafia.

Critiche e inesattezze

Certo, non sono mancate le critiche più disparate al romanzo. Lo stesso Eco, in anni successivi, prese a screditare il suo esordio letterario, preferendogli i lavori successivi. Forse rifuggendo il successo che il libro aveva raggiunto, forse perché non fu più in grado di eguagliarsi. Ma i giudizi a posteriori di un autore su una propria opera, spesso, non sono che semplici forme di depistaggio.

I critici gli hanno più volte rimproverato le inesattezze storiche. La grossolanità con cui Eco sembrerebbe trattare gli argomenti e le questioni inerenti al modo di concepire il mondo nel Medioevo. A più voci gli viene fatto notare che i suoi personaggi agiscono e parlano come uomini moderni. Eco commenterà in seguito, con la sua solita ironia, come le parti che più gli sono state contestate come anacronistiche, sono le sezioni di testo dove era stato più fedele alle fonti medievali da cui aveva attinto.

Altri gli contestarono la scelta di scrivere un romanzo “di intreccio”, dove l’azione (la trama) è eccessivamente preponderante sul resto. Aspetto che consideravano inconcepibile soprattutto a causa del passato di Eco come critico e teorico letterario. Durante l’esperienza del Gruppo 63, di cui si è già accennato precedentemente, Eco si era scagliato proprio contro la narrativa “di intreccio”, accondiscendente nei confronti del lettore e poco innovativa dal punto di vista formale. Posizioni che, nel frattempo, erano state ritrattate da Eco.

Il senso di ripubblicare Il nome della rosa

Il nome della rosa è un romanzo che per il momento ha saputo resistere al suo tempo, e che ci ritorna oggi tra le mani ancora relativamente fresco. Il che è  sorprendente considerando soprattutto il fatto che in genere quanto più un un’opera ha successo, tanto più corre il rischio di invecchiare precocemente. C’è da dire che quarant’anni, nella storia della letteratura, sono troppo pochi per poter azzardare giudizi di più ampio respiro. In altre parole, è forse ancora troppo presto per parlare di classico; la cui caratteristica principale, secondo Eco, è la capacità di «sopravvivere al tempo». Sì, ma quanto tempo?

La nuova edizione, che da poche settimane è disponibile nel catalogo de La nave di Teseo, apre le porte a un nuovo spettro di discorsi e significati attorno al capolavoro di Umberto Eco. L’aggiunta di illustrazioni originali e degli appunti di lavoro potrà stimolare nuovamente un dibattito sul valore di Eco come narratore. E non si tratta di un gusto per il feticismo letterario. Questi appunti e disegni non saranno sicuramente la pietra sopra i diverbi interpretativi e i giudizi di valore sopra Il nome della rosa; non chiuderanno la questione. Anzi, la apriranno: moltiplicheranno i punti di vista e le chiavi di accesso a quest’opera. E inoltre, potranno aiutarci a comprendere i meccanismi e le strategie che precedono e sottendono al lavoro di scrittura di un romanzo. Riattivando così quell’aspetto, troppo spesso trascurato, dell’artigianalità della scrittura letteraria; e aiutandoci a capire un po’ di più, come già altri autori prima di Eco hanno fatto (da Poe a Sterne, da Dante Coleridge, da Leopardi a Pavese), come funziona il mestiere di scrivere.

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Andrea Borio

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