Tra le varie occasioni di aggregazione che l’epidemia di Covid ha messo in pausa, una delle più significative è di certo l’appuntamento con la sala cinematografica. Finalmente, dopo mesi di buio, le sale tornano ad illuminarsi dando così la possibilità a molti di recuperare titoli la cui uscita era prevista negli scorsi mesi. Tra i film in programmazione al momento trova un posto di riguardo Les Misérables diretto da Ladj Ly, un’opera che colpisce dritto allo stomaco, come un calcio ben assestato. In poco più di due ore di tensione, ci si scopre infatti a muoversi nervosamente sulla ritrovata poltroncina rossa, da troppo lontana.
I difficili equilibri nelle periferie urbani francesi
Questo film, cavalcando perfettamente l’ondata di rivolte al suono di Black Lives Matter, descrive la difficile vita in un comune multietnico nei sobborghi di Parigi.
Leggi anche: Ci sarà giustizia per George Floyd?
All’agente Ruiz, al suo primo giorno nella Brigata Anti-Criminalità di Montfermeil, non è concesso neanche il tempo di ambientarsi. «I colori del mondo non sono mai veri come quando li guardi su uno schermo» scriveva Anthony Burgess nel libro da cui è stato tratto Arancia meccanica, e forse per questo serve davvero a tutti guardare questo piccolo capolavoro di Ladj Ly, al suo impetuoso debutto con un lungometraggio.
È proprio grazie alla potenza delle immagini e delle inquadrature, in cui a scene con camera a spalla in stile semi-documentaristico si alternano visioni dall’alto con drone, volte a racchiudere un intero mondo in cui tutte le sfumature della società e dell’umanità sono racchiuse, che riusciamo davvero a sentirci testimoni di questa lotta armata alla sopravvivenza. Di grande effetto la bellissima scena iniziale, che sceglie di aprire il film con i festeggiamenti in piazza per la vittoria ai mondiali di calcio del 2018, unico momento di coesione interrazziale in cui tutti i personaggi sono uniti al di sopra delle barriere che li imprigionano.
Per spiegare al novello assunto quale sia il loro mestiere, lo spietato poliziotto Chris parla di brutalità della società. Combattere la brutalità. Ma chi sono i cattivi da combattere? Questo è il vero quesito dell’opera, e la risposta fornita viene dalle parole di Victor Hugo nella sua omonima opera, I miserabili: «Non ci sono né cattive erbe né uomini cattivi. Ci sono solo cattivi coltivatori». Il collegamento è proprio Montfermeil, luogo d’azione dell’intera vicenda, dove lo scrittore ha scritto e ambientato parte del celebre romanzo e dove lo stesso Ly è cresciuto. A distanza di più di 150 anni poco è cambiato, gli abitanti del posto devono ancora lottare per sfuggire alla povertà e agli abusi di potere, vittime di una società capace di tirar fuori la vera malvagità.
Ovviamente è difficile dare un’interpretazione alla pellicola che non rispecchi le proprie inclinazioni politiche. Non esistono veri buoni nella vita di periferia secondo Ly, dove si ritrovano a dividersi territorio e affari varie etnie, dalle comunità islamica, a quella maghrebina a quella gipsy. Alla fine tutti sono in lotta tra loro, ognuno pensa a salvaguardare i propri interessi. E chi dovrebbe stare dalla parte della legge e tutelare chi ne ha più bisogno finisce per essere l’esempio più alto di corruzione e abuso di potere. «La legge sono io», come recitava Stallone nell’omonimo film, è il grido di chi passa sopra a tutto con la divisa sporca di sangue.
Un nuovo La Haine?
Molti hanno accostato questo film a L’odio di Kassovitz, con il quale condivide la volontà di voler portare sullo schermo la vita delle Banlieue, le periferie urbane francesi. Il linguaggio di Ly però rivisita adeguandosi alle nuove frontiere, rappresentate, oltre che dall’uso dei social anche come forma di denuncia, dal bambino che riprende con il drone le aggressioni trasformandosi nella vera forza motrice della storia. Nonostante ciò, è evidente la mancanza di una vera mordente risolutezza e capacità di sperimentare e scioccare nella forma di racconto prescelta. Un’altra differenza del film di Ly, però, oltre ad una minore vitalità e originalità registica, sta nella scelta del punto di vista della polizia per la narrazione, che si affida alla (troppo?) tradizionale contrapposizione tra il poliziotto cattivo e una controparte che, per quanto dai lati più civili, per buono proprio non ce la fa a passare.
Nonostante i tentativi di umanizzare l’agente Ruiz, Ly infatti non riesce (forse intenzionalmente) a mettere al centro della vicenda un personaggio con una reale coscienza capace di una presa di posizione concreta quanto la situazione richiederebbe. Scegliendo l’angolazione della nuova recluta sembra che il regista francese voglia in qualche modo dare una visione non troppo crudele del corpo di polizia mantenendo quindi un atteggiamento in bilico che forse poco si adatta allo stile globale dell’opera, aizzando un sentimento di rabbia che finisce per restare sospeso.
Quando si fa strada nello spettatore l’idea che il film possa essere un’animata denuncia verso i soprusi da parte delle forze dell’ordine all’interno di un circuito di delinquenza che si autoalimenta delle tensioni multietniche tra le diverse comunità abbandonate al proprio destino, il finale sembra virare verso un’attitudine diversa. È necessaria una lotta? Ly non risponde a questa domanda, si ferma a rappresentare una realtà verticale in cui nessuno è felice. È quindi lo spettatore a dover tirare le somme e compiere la sua personale scelta.
A anni di distanza da film di rivolta come Fa la cosa giusta, lo sfondo non è mutato, le tensioni continuano a salire insieme alle vittime di “morti involontarie”. Nel particolare l’episodio narrato nel film, un’aggressione verso un ragazzino da parte della polizia, si riferisce ad un evento realmente accaduto nel 2008. Difficile guardare Les Misérables senza avere davanti agli occhi le recenti immagini di un cittadino di colore soffocato da un poliziotto, senza sentire voci urlare «I can’t breathe» o senza ripercorrere le proteste che dall’America si sono scatenate in tutto il mondo nonostante le epidemie.
Il film, che oltre ad aver ricevuto una candidatura agli Oscar è vincitore del Premio della Giuria a Cannes, fornisce una grande quantità di spunti per riflettere e per porsi qualche domanda. Oltre alla lettura politica della storia, la scelta delle inquadrature ragiona anche sul continuo essere osservati, qualsiasi azione può essere ripresa e fungere da cassa di risonanza per il mondo intero, con tutte le conseguenze positive ma anche inevitabilmente negative e fuori controllo che ciò comporta.
A una domanda però è possibile trovare risposta: sì, questo è il film giusto per tornare in sala dopo mesi e riscoprire la potenza del cinema.