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Spettacolo

Ennio Morricone, la sublimazione della musica

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Simone Biondi

Sedetevi in poltrona. Di quelle che hanno abbastanza spazio per potersi quasi sdraiare. Ma non dovete farlo. Chiudete gli occhi. Siete in un auditorium. Ascoltate. Il ticchettio della bacchetta che dà il tempo sul leggio. L’applauso che accompagna l’inizio dello spartito. È magia, non musica. Commozione. Meraviglia. Tutto. L’eccitazione di più compresenze emozionali che vi fanno sorridere davanti a un’orchestra, che lava via dall’anima ogni preoccupazione. L’orologiaio del meccanismo? Ennio Morricone.

Ennio Morricone a Cannes nel 2007. Foto: Olivier Strecker, Wikimedia.

La magia del maestro Ennio Morricone

Tra le forme d’arte che esistono al mondo, quella che rimane incondizionatamente una delle più espressive ed elogiate è la musica. Non quella del cantante del momento o dei gruppi rock anni Sessanta; né quella da camera o dei grandi compositori dei secoli scorsi. Esiste una sinfonia che si va a insinuare docilmente tra orecchie e bocca, riproducendo i suoni con estrema nonchalance. Che si accosta alle immagini dei filmati proiettati sul grande schermo. E solo alcune volte, meno sovente di quanto si possa credere, quelle musiche entrano nella storia.

La grandezza di Ennio Morricone risiedeva nella sua capacità espressiva, nel saper toccare l’animo di ogni uditore con la stessa intensità. Anche se la percezione del suono cambia da un orecchio all’altro, lui riuscì da subito a entrare in quella non numerosa schiera di geni, in grado di concepire melodie perfette per l’essere umano tutto. Indifferentemente dalla conoscenza musicale che si possiede.

E quando la genialità s’incontra con la meraviglia umana, nasce la magia. Morricone si cristallizza lì, seduto a una scrivania, davanti un pentagramma e con in mano una penna, con la quale ha scombinato le vite dei più talentuosi orchestrali, consci di aver prestato il proprio talento alla bacchetta di uno dei più grandi. Una mente rigorosa, che si distribuiva analiticamente in una meticolosa differenziazione del lavoro. E forse non c’è niente di meglio per descriverlo se non dividere la sua vita in più parti, ognuna con la sua melodia. Ognuna con la sua magia.

La prima partitura

Ogni lavoro di Morricone è stato riconosciuto universalmente come capolavoro. Solitamente si stila una lista dei successi di una persona, per raccoglierli e dividerli, ma quando ogni chiave di violino è l’apertura di un sogno, allora non c’è questo bisogno imperterrito di elencare.

Nella sua prima partitura, in quell’inizio di carriera che gli ha sorriso sin da subito, il Maestro romano ha dato vita a meravigliose creazioni che hanno animato un’intera industria cinematografica. Ma la sua amicizia e collaborazione con Sergio Leone sancirono una consacrazione avvenuta ancora prima di emergere.

Una domanda che va fatta è, senza dubbio: il genere degli spaghetti-western sarebbe stato lo stesso senza la regia di Leone e le musiche di Morricone? No, decisamente no. E ancora no. Sono il binomio di due elementi a creare la magia, ricordate? La genialità che incrocia la meraviglia umana. E se i geni sono due, allora il prodotto finale è qualcosa di strabiliante. Così sono stati Per un pugno di dollari, C’era una volta in America, Il buono, il brutto, il cattivo; questi sono solo alcuni dei film ai quali Morricone ha prestato la sua visionaria capacità di adornare le immagini con il suono.

La seconda partitura

La successiva parte di vita di Morricone, non è così distante dalla prima: un professionista che ha impiegato tutto sé stesso nel lavoro, anima e corpo, prendendosi i giusti riconoscimenti (Golden Globe per Mission nel 1987, per La leggenda del pianista sull’oceano nel 2000 e per The Hateful Eight nel 2016). Ma sempre con una bacchetta in tasca; la Sua bacchetta. Quella Maria Travia con cui ha trascorso settant’anni di matrimonio, basato sulla fiducia e orchestrato magistralmente con una buona dose di amore quotidiano.

Nonostante spiegasse le numerose difficoltà che si presentavano nel convivere con un compositore, Morricone è sempre stato innamorato della sua Maria, che le è stata accanto dal 1950 in poi. Con note e passione, questa relazione è stata costruita sui fondamenti con cui Ennio definì la vicinanza tra amore e arte: tenuta, coerenza, serietà, durata. E fedeltà.

E in questi quattro elementi (più uno), se non fosse stato spiegato, chi riuscirebbe a comprendere quale sia l’amore più profondo? Se quello per la musica o quello per la donna della sua vita? Entrambi sono stati la sua colonna sonora personale, descritta nel pentagramma del suo sorriso, regalato spesso nonostante il suo essere schivo.

La terza partitura

Inizio. Svolgimento. Fine. Chi ha un cuore poco pratico e incline alle emozioni, descriverebbe così un concerto o un componimento. Ma queste righe, così come le musiche del Maestro, sono dedicate a chi ha chiuso gli occhi all’inizio, ha chi ha preso posto su quella poltrona e si è regalato una gioia per le emozioni che sono trapelate da queste melodie.

Parole dedicate alla commozione di un uomo più grande degli altri ma che non ha mai voluto annunciare la sua grandezza. Un semplice figlio di Roma (e romanista, ancora prima che musicista, come amava definirsi) che ha realizzato il suo sogno di dare un ritmo e una scansione alle sue idee. Un genio che è rimasto senza parole, se non quelle per ringraziare la sua dolce metà, davanti all’assegnazione del suo ultimo Oscar, quello del 2016 per The Hateful Eight, dove per un momento, magari, è tornato con la mente alla sua prima partitura.

Quella scritta con Sergio Leone, quando aveva appena cominciato ad ammaliare il mondo con la sua arte. Adesso potete alzarvi. Applaudite. Continuate a farlo per quanto più credete sia giusto. Nel mentre anche l’orchestra si è alzata e ha posato gli strumenti. Anche loro applaudono. Il Maestro ha fatto il suo ultimo inchino. Ha terminato la partitura della sua vita. E chiude il pentagramma con il rumore più forte di tutti.

Il silenzio.

Ennio Morricone alla Festhalle di Francoforte, nel 2015. Foto: Wikimedia.
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Simone Biondi

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