Hong Kong Express (1994) di Wong Kar-wai è ormai un classico del cinema orientale. È uno dei più amati film di un regista outsider della propria industria locale. Fu infatti una vera e propria porta per far ottenere all’autore un riconoscimento in Occidente, grazie a qualche critico e cinefilo – come Quentin Tarantino – che vedendolo smosse la critica, indicando Wong come una delle voci più interessanti del quadro contemporaneo. Ad oggi è ben più di una voce interessante: è ormai parte integrante della storia del cinema. Fa scuola anche per diversi registi occidentali, come Sofia Coppola, Xavier Dolan, lo stesso Tarantino, ma anche alcune ultime leve come Barry Jenkins (Moonlight, If Beale Street Could Talk).
Wong è una mosca bianca e allo stesso tempo il creatore di un universo cinematografico affabile, pop, ricco di elementi sia locali che esteri. Durante gli anni Ottanta l’industria cinematografica hongkonghese ebbe un’esplosione senza precedenti. Arrivò a superare qualsiasi Paese occidentale nel rapporto tra abitanti e biglietti venduti, con una logica di produzione seriale standardizzata che la faceva sembrare una sorta di Hollywood asiatica (e infatti era la più prolifica dopo Hollywood e Bollywood). Importò stilemi occidentali mischiati a cultura cantonese, per un mercato dominato dai film d’intrattenimento spettacolare, noir, pulp e comici – spesso mischiando vari sotto-generi. Hong Kong d’altronde è sempre stata una realtà ibrida, dove persino gli elementi caratteristici sono elementi importati, un crocevia di influenze, di elementi eterogenei, un caos metropolitano di cui anche altri registi, come John Woo, sono riusciti a raccontare.
Wong beneficia, certamente, del fitto reticolato di stimoli, educandosi grazie alla madre a un’orizzonte culturale aperto, tra letteratura, musica, arte cinese e anche occidentale, o ancora sudamericana. Apprende le lezioni del cinema di Godard, Antonioni, Bertolucci, e ancora tanto altro cinema europeo e orientale. È un regista cinefilo, che intende, anche, fare cinema a partire da questa esperienza cultrice e a partire dalla consapevolezza, come molti altri registi di epoca postmoderna che è lo stesso concetto di originalità a dover trovare nuove vie. Infatti si distacca nettamente dagli intenti d’intrattenimento di molte produzioni hongkonghesi, cercando un cinema molto estetizzato, la cui forma però non serve banali ed effimere spettacolarità (nonostante qualche accusa di sofisticato manierismo fine a sé che ha ricevuto da alcuni scettici e detrattori), ma ha la funzione di restituire una dimensione sensoriale, intima, della percezione del mondo e dell’uomo che vive questo mondo.
Wong infatti subisce vari flop in patria nel suo intento di seguire, come da lezione godardiana, un modo di fare cinema fuori da dettami. Scrive e gira in un flusso per lui stesso imprevedibile, dalla fase di scrittura, mai del tutto dettagliata o completa, fino alla fase di riprese, con tantissimo girato “girovago” (in Hong Kong Express letteralmente). Accumula impressioni, lasciando più libertà agli attori di quanta ne avessero con altri registi connazionali, e dovendo, poi, riordinare tutto in fase di editing, cercando un filo connettore che sappia dare senso di quest’esperienza cinetica del mondo. Si conquista la regolare perplessità di molte personalità influenti nell’industria di Hong Kong, decisamente più inquadrate, ma in verità anche il puntuale panico di molti festival europei e non, consegnando talvolta all’ultimo il proprio film, finito di montare poco prima. Wong, infatti, è noto per produzioni cinematografiche abbastanza lente, tanto che la preparazione di Hong Kong Express, iniziata e conclusasi in poche settimane, è rimasta un caso isolato quanto a rapidità, e per certi versi anche per energia e frizzante vitalità. Altre produzioni, come quella di 2046, hanno impiegato ben cinque anni per vedersi concluse. Ancora oggi sono passati sono passati sette anni dal suo ultimo film, The Grandmaster, e è dal 2015 che si vocifera della sua prossima impresa, Blossoms, le cui riprese sono iniziate proprio in questi mesi, dopo il lockdown, e sarà sia in forma seriale televisiva per Amazon sia in forma cinematografica.
Diventa chiaro che Wong non è un regista granché allineato con una logica produttiva industriale, bulimica e prolifica com’era Hong Kong nei suoi tempi d’oro. Per i primi anni Novanta, contesto dunque da cui emerge il ben diverso Hong Kong Express, produceva duecento film all’anno, dettando però, da lì a poco, anche il suo declino, esauritosi in un formule consumate (di cui Hong Kong Express saprà darne i sintomi), ma anche nel controverso evento del “ritorno a casa” nel 1997, con la riannessione alla Cina. Ad oggi Wong, nonostante non fosse stato al capo dorato di quest’industria, è ancora il primo nome che viene in mente quando ci si riferisce alla produzione cinematografica di Hong Kong. È un segno di quanto abbia saputo diventare una firma autoriale subito riconoscibile, per certi versi un vero e proprio prodotto d’autore esportabile, con un linguaggio seduttivo universale. E pur non facendo mai cinema di vocazione sociale, ha saputo intercettare la natura della sua città in alcune opere. Il contesto globalizzato di questa febbrile metropoli capitalistica è l’origine, la possibilità della vocazione internazionale di Wong, il quale ha saputo rifletterne anche inquietudini e smarrimenti.
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Con Hong Kong Express e Angeli perduti Wong si concentra, in maniera non più replicata in futuro, sul qui e ora. Infatti per discostarsi dal difficoltoso montaggio del wuxia Ashes of Time, che Wong aveva in ballo al momento della germinazione di Hong Kong Express, il regista volge lo sguardo alla dinamica realtà circostante. La narrazione è divisa infatti in due parti, ambientate rispettivamente in due cuori pulsanti della moderna Hong Kong, cioè il quartiere multietnico di Tsim Sha Tsui e quello del Central District. Passando dalla prima alla seconda storia si passa dalla notte al giorno, in un flusso ininterrotto di vite, movimenti, sintomo di una città irrequieta che non dorme mai e ha sempre storie all’attivo, che si dipanano da qualche parte nella sua mappa senza centro. La città è un personaggio a sé stante, un organismo che si ramifica in mille strade come mille percorsi individuali, che talvolta, in momenti casuali, si incrociano, tante altre volte viaggiano paralleli senza incontrarsi mai.
Si tratta inoltre di un crocevia culturale, come si vede dalla presenza di stranieri che circondano una trafficante di droga, personaggio principale della prima storia interpretato da Brigitte Lin, femme fatale in maschera e senza nome, come dalla compresenza di musiche, suoni, voci, oggetti di varia nazionalità. L’effetto è caleidoscopico e frenetico nella prima storia. Hong Kong Express infatti, come in generale il cinema di Wong, orchestra una percezione ritmica, che abbraccia sia un tempo interiore, ripiegato in sé stesso, un’interiorità spesso alienata, sospesa rispetto al tempo oggettivo, sia poi, appunto, il dinamismo incredibile della realtà. Non di rado infatti si relazionano, in un vero e proprio richiamo bergosniano, piani sul dettaglio di orologi, che segnano implacabili l’avanzata di ore, minuti, e giorni, e poi invece le dilatazioni o accelerazioni percepite dai personaggi.
A questo si aggiunge il tentativo dell’individuo, compreso il regista, di riprendere una realtà in movimento così cacofonica, caotica. Non vi è un intento documentaristico, ma piuttosto la restituzione del vivere dentro questa realtà, con quella percezione parziale che tutti gli abitanti di una realtà metropolitana hanno: frammenti isolati, movimenti frenetici registrati confusamente, parzialmente, in mezzo a un’oceano acustico. È il trionfo del fugace, se non per sparuti istanti in cui si cristallizzano immagini, si isolano elementi che colpiscono il soggetto, destinati a essere conservati nella memoria con un fermoimmagine. Wong per restituire questa percezione soggettiva, frammentaria, dovendo ad esempio riprendere vari inseguimenti della trafficante di droga a Tsim Sha Tsui, usa lo step-framing, con cui crea una discontinuità nel movimento attraverso l’eliminazione di alcuni fotogrammi. Questa discontinuità viene attenuata dallo strep-printing dove vengono duplicanti in stampa alcuni fotogrammi, in modo da bilanciare il vuoto lasciato dai salti nella sequenza di fotogrammi.
L’effetto su un’azione rapida così ripresa è a scatti, con il trascinamento visuale degli istanti appena precedenti. Tutto si miscela in un insieme di colori, di registrazioni visive e sonore che si sovrappongono l’una all’altra. Ed è in questo contesto che Wong articola una prima parte del suo discorso sulla temporalità. Infatti nella prima storia i due protagonisti, la trafficante e un giovane poliziotto (Takeshi Kaneshiro), vivono una condizione analoga: sono oppressi dalle scadenze temporali. La donna deve correre contro il tempo per salvare un’operazione di contrabbando che rischia di fallire. Il poliziotto, anch’egli senza nome proprio ma solo con il numero identificativo sul lavoro, 223, viene lasciato dalla fidanzata May. Quest’ultima si è stancata di lui e vuole andare avanti, ed egli sente cocentemente la sensazione di assomigliare a un qualunque oggetto scaduto nel ciclo consumistico moderno. Viene sorpreso da un amore che incontra la sua fine, finisce il suo tempo. Si trova così sconfitto nella credenza che questo avrebbe potuto andare avanti in eterno. Per Wong la temporalità e la memoria sono sempre associati a fattori sentimentali. Lo stesso processo che avvia il ricordo è il ricordo, spesso, di un amore, che raramente trova una via di felice stabilità o anche soltanto una realizzazione. In questo senso il flusso di vite e destini della città si accompagna bene al senso di “fatale casualità” che Wong associa spesso alle sue narrazioni sentimentali, spiegato bene da una battuta del suo film 2046: «Nella vita il vero amore si può mancare, se lo si incontra troppo presto o troppo tardi. In un’altra epoca, in un altro luogo, la nostra storia sarebbe stata diversa».
Questa dinamica è presente anche in Hong Kong Express, che costituisce comunque una delle parentesi più leggere e ottimistiche di Wong: ogni personaggio, incontrandone un altro, si porta dietro il peso di un proprio vissuto ancora da elaborare, di una propria temporalità interna che non necessariamente, in quel momento, può trovare un incastro con quella degli altri. In questo le due parti di Hong Kong Express sono due variazioni sul tema, che articolano due possibilità diverse. Nella prima vige la stessa esperienza del movimento, di tutto ciò che passa senza che lo si possa controllare, e dunque dell’impossibilità di costruire ancora qualcosa di nuovo e definito, ma anche della poesia dell’istante cristallizzato, che può sfuggire alla corruttibilità del resto e restare tale com’è, nella memoria. Nella seconda, che articola il rapporto tra un altro poliziotto, 663 (Tony Leung), e Faye (la cantante Faye Wong), una giovane e sognante ragazza che lavora al Midnight Express, invece si articola sui tempi più dilatati, quasi ovattati, sulla ripetizione di una routine, di stesse canzoni, gesti e azioni, che consentono ai protagonisti di elaborare la propria esperienza e trovare un modo per venirsi incontro. Non a caso quest’ultima parte è più luminosa, ambientata di giorno.
La ripetizione però è articolata da Wong più in generale su tutta la narrazione: non solo ritornelli sonori diegetici, ma anche ricorrenze, richiami, doppi, specchi. Le possibilità di incrocio, di mille combinazioni che offre la realtà metropolitana si esprimono anche in queste comunanze tra personaggi che, spesso, entrano in stretto contatto fisico solo fugacemente. Ad esempio sia 223 che 663 subiscono una rottura sentimentale, che esprimono attraverso oggetti transizionali. 223, come accennato, si paragona al ciclo di continua sostituzione degli oggetti in vendita nei supermercati, decidendo di misurare il tempo che passa dalla rottura di May in scatole in scadenza, accumulate giorno dopo giorno, che decide di mangiare tutte insieme. 223 usa gli oggetti per riflettere sulla sua situazione, come fa 663, che parla con i propri peluche come per parlare con sé stesso, esprimere la propria solitudine. Infatti se c’è una ripetizione pervasiva e comune a tutti i quattro personaggi principali della storia, come anche ad una città intera, è proprio una condizione di solitudine. Si tratta in verità di una costante di tutti i personaggi di Wong Kar-Wai. In Hong Kong Express i personaggi sono circondati da oggetti e si relazionano spesso più direttamente con essi, proiettando le proprie rêverie, le proprie frustrazioni, alienazioni e abbandono, che con l’altro, cercato vanamente, oppure rifuggito, oggetto di attrazione e timore allo stesso tempo di avvicinamento. D’altronde la città moderna riflessa da Wong vede anche il trionfo della merce, come ha ampiamente trattato tutta la tradizione critica marxista: i personaggi sono circondati da luci a neon, insegne come quello del McDonald’s o la Coca Cola, simboli per eccellenza del capitalismo consumistico globalizzato.
Ed è possibile leggere alcuni elementi di Hong Kong Express come una riflessione sul fenomeno specifico di Hong Kong senza radici culturali davvero proprie, rettasi ormai su fenomeni di importazione di cui subisce il fascino. Wong lega questa critica al genere cinematografico: in Hong Kong Express sono rielaborati topos del noir, ad esempio, preso dalla tradizione americana. La femme fatale incarnata dalla donna trafficante è davvero senza volto, non toglie mai la propria maschera stilizzata, con gli occhiali da sole, la parrucca bionda che ricorda dive americane e il cappotto beige. Molti uomini si sentono attratti da lei, come ci si sentirebbe attratti da un mito collettivo, trasmesso dall’Occidente verso l’Oriente, un’icona, una propria fantasia materializzata – infatti questo protipo di personaggio noir è stato generato da un’autorialità di marcato stampo maschile, come si vede in partcolare nel sottogenere dell’hard-boiled, governato dal concetto di mascolinità, con i suoi desideri, proiezioni, crisi. Inoltre qui Wong anticipa un’altra crisi ancora, la già menzionata decadenza in cui stava incorrendo l’industria cinematografica di Hong Kong, mostrando un prototipo consumato, stanco di sé stesso, che ha bisogno di liberarsi dell’irrilessivo impero culturale occidentale per trovare una strada più autonoma.
La seduzione dei miti occidentali viene mostrata anche nella seconda storia, dove Faye ha ricorrenti fantasie sulla California, ascoltando in ripetizione California Dreamin’ dei The Mamas and The Papas. La ascolta spesso a tutto volume, per non dover pensare, isolandosi – come fanno, ognuno a suo modo, tutti i personaggi della storia – dal fuggevole flusso cittadino, per trovare una propria dimensione avulsa, personale, onirica. Un’altra ripetizione costante infatti è quella della fuga: tutti i personaggi vivono scollandosi dalla propria realtà, per rintanarsi nel passato, oppure nel sogno, dove si originano anche molti miti stilizzati e continuamente ripetuti. Faye sogna la California, come viene rappresentata dalla cultura occidentale importata, e ha bisogno di recarvisi, scoprirla sul serio per realizzare che, in fondo, non era nulla di che. Vale la pena menzionare infatti che c’è un pervasivo tema dell’identità e dell’autenticità in tutto Wong, tra ruoli rivestiti, interpretati, di cui si appropria per riflettere e cercare gli altri, come sé stessi.
Wong non si limita a notare una pervasività dell’immaginario occidentale, anzi, non si potrebbe nemmeno teorizzarlo come un regista desideroso di un ripristino di una cultura locale, in quanto egli stesso è un prodotto di più culture, a partire dalle proprie influenze cinematografiche. Infatti diverrà noto per il suo uso della colonna sonora, che non disdegna affatto di inserire brani pop americani insieme ad altri locali, o ancora a cover locali di brani americani, com’è il caso di Dreams dei Cranberries rifatta da Faye Wong.
L’inserimento di questi brani non è mai un semplice sottofondo alle vicende, ma assume una sua propria funzione narrativa: entrambe le canzoni americane sopracitate, insieme a What a Difference a Day Makes, parlano del cambiamento, sono intrecciate, nei testi, alle vicende dei personaggi, talvolta le contraddicono, come a presentare un punto di vista opposto al loro che dovrebbero considerare. L’importanza infatti del suono e del ritmo in Wong si traduce anche nell’importanza della musica, tant’è che molti suoi processi creativi nascono dalle suggestioni provocate da un brano musicale, messe poi in cassetta per elaborare una storia. Anche sul set Wong, come altri registi di Hong Kong, si serve della musica per spiegare ad esempio ai suoi attori che tipo di effetto vorrebbe da loro.
L’esperienza filmata da Wong dunque intende mostrare tutti i lati dell’immediato presente per Hong Kong, dando spazio anche a preoccupazioni, dubbi sollevati, più in generale un sotteso sentore di un’epoca problematica. In primis infatti non vi sono sicure istanze sociopolitiche, ma la volontà di mostrare un’insieme di sensazioni che investono la contemporaneità, con la centralità dell’esperienza soggettiva dei personaggi. Tuttavia è possibile vedere come il tema della fuga, e dei viaggi di Faye, si lega anche al ritorno a casa come potenzialità incerta, come in generale ai temi sollevati da eventi prossimi come quello 1997, tra Cina e impero anglofono.
Hong Kong Express quindi dà voce a uno smarrimento universale, in fondo, di solitudine e difficoltà di contatto moderne. Soprattutto spiega il motivo della seduzione universale che esercita sul pubblico internazionale con il proprio immaginario sensuale, che si affida al generalizzabile dell’esperienza interiore, sentimentale attraverso una forte stilizzazione, una narrazione di sé, dei percorsi di vita di personaggi che trovano rispecchiamenti possibili con lo spettatore attraversando generazioni e confini geografici.
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