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Quando Goran Ivanišević vinse Wimbledon

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Gabriele Zangarini

Goran Ivanišević era uno degli ultimi interpreti del serve & volley. Mancino, potente, aggressivo. Adatto per l’erba, anche se sul verde londinese aveva preso solo scottature, spesso cocenti. Come le tre finali su tre buttate all’aria sotto gli occhi della madre. Una volta con Andre Agassi, due volte con Pete Sampras. Mostri sacri certo, ma quanta rabbia. Per un carattere come il suo poi, irrequieto e imprevedibile, dopo la terza sconfitta era iniziata la fase calante; un vivacchiare nel circuito utile solo per guadagnarsi la pensione.

La wild card che cambiò la vita di Goran Ivanišević

Il regolamento di Wimbledon di norma esclude dalla partecipazione chi è classificato oltre la centesima posizione del ranking. Goran Ivanišević era però un’istituzione, un tennista in grado di giocare tre finali sul Centre Court e di arrivare fino alla posizione numero due del ranking ATP. Per questi motivi l’organizzazione di Wimbledon nel 2001 gli concesse una wild card, un ingresso omaggio in tabellone, fregandosene della posizione numero centoventicinque e della recentissima sconfitta con Cristiano Caratti al primo turno del Queen’s, torneo londinese che precede Wimbledon.

Fu così che nel giugno del 2001 Goran accettò la wild card, deciso a calcare l’ultima prestigiosa passerella della sua carriera. Le previsioni parlavano di uno, al massimo due turni, l’abbraccio del pubblico, gli applausi. Commiato meritato per un tennista talentuoso e poco costante, figlio della Spalato croata ma incarnazione dello spirito slavo più folle.

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Dal primo turno alla semifinale sorprendendo tutti

Ma la storia racconta un altro epilogo. Il primo turno passò agilmente, gli almanacchi faticano a ricordare ancora oggi il nome del malcapitato. Al secondo giro capitò subito un grande ostacolo, Carlos Moyá, in quel momento al top della condizione ma pur sempre un terraiolo della peggior specie iberica. Goran Ivanišević perse un set, poi ne vinse tre. Contro ogni pronostico il tennista croato volò al terzo turno. Per la sfida successiva la dea bendata scelse Andy Roddick, l’astro nascente del tennis statunitense. I bookmaker sorridevano quotando la vittoria del croato 1:150, ma Goran aveva ritrovato il servizio micidiale e le vibrazioni dei tempi d’oro. Il giovane Roddick fu abbattuto dopo quattro set tiratissimi e Ivanišević riassaporò il profumo degli ottavi di finale sull’erba londinese.

La vittima designata fu Greg Rusedski, canadese che giocava sotto la bandiera britannica. Sembrava lo specchio di Goran Ivanišević: alto, mancino, erbaiolo, con un servizio atomico che spesso batteva in campo e finiva sugli spalti, tanto era carico di effetto. Rusedski avrebbe dovuto giocare con il pubblico a favore. Ma i gentlemen che sedevano sulle tribune inglesi avevano preso a cuore la questione del croato. Classico canovaccio dell’antieroe che si redime, che torna dall’oblio per regalare emozioni non convenzionali. Ivanišević vinse in tre set, senza lasciar diritto di replica.

Giunsero i quarti e il destino gli regalò un atleta che a pazzia non era da meno. Russo, un marcantonio bello e potente con il vizio di non ricordare il nome della ragazza con cui si svegliava la mattina. Si chiamava Marat Safin e fino a qualche mese prima era stato numero 1 del ranking per circa 9 settimane. Ivaniševic concesse un set al malcapitato e filò dritto in semifinale, dove ad attenderlo c’era il buon Tim Henman.

Goran Ivanišević e una semifinale lunga tre giorni

Tim Henman, bene specificarlo, portava con sé un soprannome eloquente: Timbledon. Sull’erba si trovava estremamente a proprio agio e da qualche anno arrivava in semifinale senza riuscire ad andare oltre. Al contrario di Rusedski, il popolo britannico stravedeva per lui e non aspettava altro che ammirare un figlio della Corona sul podio più alto di Wimbledon. La partita fu uno psicodramma lungo tre giorni, dove acqua e vento tratteggiarono un confronto epico. Il croato vinse il primo set 7-5, perse il secondo 6-7 e regalò il terzo all’inglese. Il primo rinvio venne imposto sul risultato di due set a uno per Henman, con Tim avanti nel quarto set per due a uno. Goran tra l’altro, con una spalla malandata e la certezza di aver già compiuto un’impresa, aveva appena perso il terzo set 6-0 in quindici minuti. Il match riprese con buona lena solo la domenica e un Ivanišević rinsavito trascinò Henman ad un tie-break al cardiopalma. Lo vinse lui. Si andò al quinto con il pubblico che esplodeva a ogni punto dell’inglese e vociferava sconfortato quando ad andare a segno era l’avversario. I gentlemen inquadrati in eurovisione non avevano più unghie a disposizione, quelle le aveva solamente il buon Goran che si aggrappò al suo talento e chiuse con un sontuoso 6-3. Fu finale.

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L’occasione della vita per Goran Ivanišević

Nelle precedenti 115 edizioni mai si era giocata una finale di lunedì. Per riempire il centrale la direzione fu costretta a rivendere i ticket per la partita a un prezzo quasi irrisorio di 40 sterline, con il risultato che il prestigioso impianto si trasformò in una torcida croata. L’avversario rispondeva al nome Pat Rafter, due volte vincitore degli US Open e numero 3 del ranking. Un osso durissimo. Goran, superstizioso come pochi, invitò solo il padre ad assistere nel parterre. La madre, nella testa del figlio, portava troppa sfortuna: tre finali in tribuna, tre sconfitte. C’era però un piccolo problema, il Ivanišević senior aveva appena superato un delicato intervento al cuore e portava con sé tre by-pass.

La partita fu combattuta come da pronostico. Si arrivò al quinto dopo un 6-3, 3-6, 6-3 e 2-6, pieno di break lasciati per strada. Cosa che non successe nell’ultimo set, dove i due atleti non persero la battuta fino a giungere sul sette pari. Sul turno di servizio di Rafter il croato riuscì a portare casa il break con due passanti fulminanti. A questo punto doveva servire per il match. Al cambio di campo Goran si sedette qualche istante sulla sua panchina: le gambe tremavano come non mai, gli occhi rigonfi di emozione erano il preludio al sogno. Prima però c’era da chiudere il match. Si ripartì, 40-30, match point.

Finalmente il coronamento del sogno

Goran lacrimava, pregava, volgeva lo sguardo in alto. Ma come al solito non ebbe mezze misure e giocò due servizi fuori giri: doppio fallo e tutto da rifare. La cosa si ripeté al punto successivo mentre il padre in tribuna sotterrava le emozioni per non crepare di infarto. Rafter, sfinito anch’egli, sbagliò un rovescio in allungo, pallina fuori di un niente. Ivanišević si inginocchiò, fece il segno della croce, sciolse il braccio ma un dolce lob dell’avversario lo riportò nel purgatorio della parità. Preso dall’agitazione forzò ancora il primo servizio e sbagliò di nuovo, ma un secondo servizio beffardo costrinse Rafter a spedire il rovescio in rete. Ivanišević a quel punto fermò il raccattapalle e da buon superstizioso si fece ridare quella pallina. Era quella buona, quella a forma di vittoria, ne era convinto. Batté e l’avversario, recidivo, rispose in rete.

Scoppiò il delirio ed esplose il Centre Court. Goran Ivanišević si arrampicò sulle tribune e corse dal padre. Il sogno di una vita che si avvera quando meno te lo aspetti. «Sto sognando e non voglio svegliarmi. Non mi importa più nulla se non vincerò più una partita», disse durante la premiazione. Si ritirò qualche anno dopo, ma la sua vittoria resta una delle avventure più incredibili di Wimbledon.

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Gabriele Zangarini

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