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Le facoltà umanistiche, viste dall’interno

Published by
Bianca Coluccio

L’incognita delle facoltà umanistiche

Quasi al termine del percorso di studi, uno studente si trova a dover fare i conti con la propria parabola accademica. Stringi stringi, com’è stato fare l’università? Alla fine di tutto, la mia formazione qual è? E la mia competenza? Quali dinamiche desidererei che si ripetessero e quali no? A maggior ragione questo stringi stringi arriva per chi non ha frequentato una facoltà esattamente professionalizzante. Diremmo che chi studia ingegneria ha molte probabilità di diventare ingegnere, chi studia fisioterapia farà il fisioterapista. Ma chi studia storia? Storia dell’arte? Filosofia? Sarà uno storico (dell’arte) o un filosofo?

Il novello studente affronterà di sicuro una serie di ostacoli in forma d’enigma, che in realtà l’iscrizione al corso di laurea sottende risolti, senza però in questo caso offrire delle reali indicazioni. In primo luogo, questo insegnamento ha un valore strumentale? Chi lo sa. Ma se ce l’ha, a cosa indirizza? Sappiamo tutti che alla facoltà di Storia si studia prevalentemente storia. Ma insomma, questa storia come la si studia? E poi che vuol dire studiare la storia? Devo imparare quello che succede, e dopo? Che ci faccio con tutta questa storia? Avessi fatto lettere avrei potuto almeno sperare di fare lo scrittore… Certamente non un professore, sia mai! Al massimo il professore universitario…

Così succede che a frequentare il primo corso dell’anno accademico ci siano in aula trecento studenti, molti dei quali si trovano lì per una sorta di vocazione, un richiamo, una motivazione intrisa di orfismo, più che per un’idea precisa di come sfruttare le proprie attitudini. Sono disorientati, ma dapprincipio entusiasti, eppure qualcuno di loro sta sprecando il suo tempo. Di solito sono di quella specie che al primo parziale del primo corso del primo anno della triennale di lettere copiava dal cellulare qualcosa per riuscire a coprire dignitosamente due facciate di foglio. Fa già ridere (o piangere) così.

Di certo l’intento non è affatto quello di scoraggiare le varie attitudini, ma di riconoscerle, di pensarsi in prospettiva – per quanto concesso. Affascinarsi a Pirandello durante la scuola, o a Dostoevskij, sarà sufficiente ad affrontare anche la Gerusalemme liberata o le rotazioni consonantiche dell’alto tedesco? Inoltre, studiassi fisioterapia avrei come consolazione almeno una prospettiva piuttosto probabile: ho bisogno di dare quest’esame, altrimenti come divento fisioterapista? Ma studiando lettere classiche se non passo l’esame di greco al massimo cambio facoltà perché tanto tra lettere, storia e il DAMS non c’è troppa differenza. Cioè a dire: non so esattamente per cosa lo sto facendo.

Di contro nessuno dice che tutti gli altri studenti siano sempre spinti da una gran devozione o da una motivazione limpida. Anzi, è vero che sono due condizioni spesso difficili a realizzarsi. Figuriamoci se quella consolazione del “diventare qualcosa”, del riconoscersi un merito, non è neppure così probabile. Un serpente che si morde la coda.

 

Leggi anche: Il futuro della scuola italiana tra ragazzi abbandonati e mezzi insufficienti.

Gli studenti delle facoltà umanistiche

Qualche anno fa il Gruppo di Firenze decise di scrivere la famosa lettera dei 600, lamentando la scarsa conoscenza dell’italiano da parte dei propri studenti. Certo, la lettera si riferiva agli studenti universitari tutti, e non agli studenti delle facoltà umanistiche. Ma questo non esclude che sia talvolta necessario anche agli umanisti frequentare corsi di grammatica, ortografia e comprensione del testo. Non del tutto errato nell’ottica del non dover lasciare indietro nessuno. D’altra parte, però, non è di certo l’università il campo dell’insegnamento di base.

Gli atenei fingono spesso ovviare al problema tramite un test da svolgersi per le matricole prima dell’inizio dell’anno accademico. Il test non è a sbarramento, ma saggia conoscenze e competenze con lo scopo di sanare eventuali lacune durante il primo anno. Poco male, si direbbe. Peccato che in molti atenei il test sia lo stesso per molte delle facoltà umanistiche, un po’ come se il test di ingegneria informatica e quello di architettura fossero gli stessi. Non solo, spesso e volentieri questi Obblighi Formativi Aggiuntivi, che dovrebbero rappresentare almeno un ipotetico intralcio all’iscrizione al secondo anno, non si risolvono che in laboratori a frequenza obbligatoria che trattano di tutto un po’ finendo per non trattare di niente, promuovendo tutti in ultimo, costringendo l’università ad attivare corsi di grammatica cui partecipino anche gli studenti di lettere.

Questo è il motivo per cui facoltà come filosofia, antropologia, lettere, continuano a essere così affollate? Seppur il numero degli studenti vada diradandosi col tempo, rimane che i laureati in materie umanistiche sono comunque tantissimi e peraltro con voti piuttosto discreti (AlmaLaurea riporta che i laureati nel settore chimico-farmaceutico nel 2019 sono 3.014, con un punteggio medio degli esami di 25,3 con un voto di laurea medio di 100,6; il numero di laureati in discipline letterarie per lo stesso anno è 14.391 con una punteggio medio degli esami di 27,2 e voto medio di laurea 104,2. Altri esempi è possibile verificarli da sé qui). Vale la pena domandarsi che cosa significhi a questo punto credere a un sistema meritocratico, se c’è un appiattimento nell’eccellenza.

 

 

I professori

Eppure è successo che i professori si siano abituati ad avere degli studenti impreparati, il proprio lavoro di insegnante è venuto a noia – quando non è diventato un secondo lavoro, una cosa accessoria, come se l’università non fosse il luogo di formazione di una futura classe dirigente ma qualcosa cui dedicarsi per attivare una routine, per mantenere uno status symbol.

Una volta, un professore di letteratura aprì il corso pregando tutti di non “provare” a dare l’esame. Vale a dire, un professore si era trovato a domandare agli studenti di presentarsi all’appello avendo prima almeno studiato. Lo stesso professore, tuttavia, continuò per la durata intera delle lezioni a fornire informazioni errate. Confuse date, nomi, accadimenti, abbondò di informazioni contrastanti rispetto a quelle fornite nel manuale assegnato. Stringi stringi qual è stato l’utile dello studente, se alla fine parte del lavoro se lo è dovuto svolgere autonomamente? Sorvolando sul problema dello sfruttamento degli assistenti, che talvolta fanno esattamente le veci del professore. Quando non si trovano a preparare interi moduli da portare a lezione, interrogano gli studenti durante gli esami orali. Un meccanismo, peraltro, che non protegge dal possibile conflitto di interessi. Delle volte sono pochissimi gli anni che separano chi interroga da chi è interrogato.

Problemi di comunicazione

Il sistema dei crediti funziona certo discretamente per le facoltà scientifiche. Peccato che non si possa dire lo stesso per quelle umanistiche. La suddivisione in moduli che ne deriva, infatti, spezzetta un insegnamento che non può appagarsi davvero senza comunicare. Gli insegnamenti sono serrati in ore precise, compartimenti stagni, destinati a non potersi accordare, a fornire spunti e connessioni spesso sotterranei. Chiaramente a subirne gli effetti sono tanto gli insegnanti quanto gli studenti, frustrati rispettivamente nell’insegnamento e nell’apprendimento – il motivo per cui si dovrebbero trovare dove si trovano, peraltro.

Sono meccanismi che non fanno altro se non creare opposizioni: l’opposizione tra professore e studente prima, quando non tra studente e università, che lega i principali attori del mondo accademico da un rapporto disfunzionale e che in certi casi arriva a basarsi su reciproche diffidenze. Si sta assistendo a un cortocircuito dello stimolo: è venuta meno una dialettica.

Si richiede alle nostre facoltà di essere professionalizzanti, essendo l’università stessa percepita come un’azienda prima che un’istituzione. D’altra parte, in questa specie di trasformazione manageriale non state incluse le facoltà umanistiche. Non solo: esse stesse sono diventate immagine di un sistema che scoraggia la carriera tanto universitaria quanto accademica, che scoraggia l’insegnamento, scoraggia lo studio e, fingendo di avvicinare, in verità allontana dalla cultura.

Bisogna sempre tenere in considerazione che la grande premessa a tutto questo discorso non può che essere una. Un problema di istruzione è prima di ogni altra cosa un problema politico. Ma il secondo cortocircuito è proprio questo, come a dire: è nato prima l’uovo o la gallina? La soluzione sarà ancora una volta quella del Barone di Münchhausen: trarsi su da sé tirandosi per i capelli pur di non annegare.

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Bianca Coluccio

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