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I nuovi confini del ciclismo mondiale

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Federico Smania

La storia del ciclismo è stata segnata per oltre un secolo da quattro nazioni capaci di portare alla ribalta i migliori atleti sulle “due ruote senza motore”: Francia, Italia, Belgio e – con qualche anno di ritardo – Spagna. Chi non segue con particolare enfasi questo sport è molto probabile che conosca solo i ciclisti più “pop”, quelli che, nel bene o nel male, hanno scritto le pagine di maggiore interesse. Marco Pantani, Bernard Hinault, Miguel Indurain, Fausto Coppi e, ovviamente, Eddy Merckx, il più grande ciclista di sempre. Dati alla mano, su 283 grandi Giri disputati dal 1903 ad oggi, le vittorie di ciclisti provenienti dai quattro paesi citati poc’anzi sono 216: oltre il 76%. Potrebbe sembrare una percentuale monstre eppure, prendendo come riferimento le classiche monumento e non i Giri, questa aumenta all’81%, dimostrando una vera e propria egemonia di quelle che possono essere considerate le patrie del ciclismo.

L’ultimo decennio ha cambiato la geografia del ciclismo portando i confini fuori dal Vecchio continente

Gli anni Dieci del terzo millennio hanno portato un ribaltamento degli equilibri per quanto riguarda l’aspetto “geosportivo”. Il punto più alto di questo mutamento si è verificato proprio nel 2019. Nella scorsa stagione, infatti, il Giro d’Italia è stato vinto dall’ecuadoriano Richard Carapaz; il Tour de France dal colombiano Egan Bernal; e la Vuelta a España dallo sloveno Primož Roglič. Ma cos’hanno in comune questi tre corridori? Sono stati i primi ciclisti del loro Paese a vincere quella competizione. Nessun ecuadoriano aveva mai trionfato nella corsa rosa, nessun colombiano si era mai vestito di giallo sugli Champs-Élysées e nessuno sloveno si era mai imposto nell’ultima grande corsa a tappe della stagione.

Questa tendenza è risultata meno evidente nelle classiche che sì hanno visto trionfare ciclisti provenienti da luoghi in cui la bicicletta non è esattamente un dogma, ma con una frequenza minore e non rilevante in termini statistici. Ma quali sono questi Paesi che, quasi da un giorno all’altro, si sono trovati in prima pagina dei giornali sportivi?

Leggi anche: Pedala Alfonsina Strada, pedala! Storia della pioniera del ciclismo.

Il Regno Unito da Wiggins a Froome

Il ciclista che maggiormente ha caratterizzato le corse di tre settimane degli ultimi anni è stato Chris Froome. Il britannico, soprannominato “il keniano bianco” per essere nato a Nairobi, ha fatto incetta di successi nei grandi Giri diventando a pieno titolo uno dei più grandi di sempre nelle corse a tappe. Non ha mai brillato per simpatia, ma essendosi aggiudicato almeno una volta Giro, Tour e Vuelta è entrato nella ristrettissima élite dei ciclisti capaci di questa impresa. Froome, in realtà, è stato solo il simbolo della massima espressione britannica che però non si esaurisce con i trionfi del campione del Team Sky.

Nella storia del ciclismo un atleta del Regno Unito è salito sul gradino più alto del podio dei grandi Giri per dieci volte, sette delle quali proprio con il nativo di Nairobi. L’altro dato interessante è che prima del 2011 il conto delle vittorie britanniche era a quota zero. Infatti, lo sventolìo della Union Jack è iniziato con la vittoria di Sir Bradley Wiggins alla Grande Boucle del 2012, nonostante – ufficialmente – risulti una vittoria di Froome alla Vuelta 2011 assegnata però ex post per la squalifica di José Cobo. Il momento più alto della giovane storia del ciclismo britannico risale al 2018 quando i tre grandi Giri sono stati vinti da Chris Froome (Giro d’Italia), Geraint Thomas (Tour de France), Simon Yates (Vuelta a España).

Chris Froome durante una prova a cronometro del Tour de France. Foto: Flickr.

La Slovacchia sul tetto del mondo

Nessun ciclista nato in Slovacchia aveva mai vinto una classica monumento nella storia fino a quando, quasi dal nulla, è arrivato Peter Sagan, l’uomo più noto nel ciclismo mondiale. Per fare un paragone con un altro sport, Peter Sagan non può essere considerato il Michael Jordan della bicicletta, bensì il LeBron James. Sì, perché lo slovacco negli anni Dieci è stato l’atleta più forte, una spanna sopra gli altri. Così forte che ha vinto “poco” perché l’intero plotone ha spesso corso per non farlo vincere e, per quanto onnipotente fosse Sagan, correre contro duecento uomini è davvero complicato.

Con le sue imprese, che molte volte si sono concluse con dei piazzamenti d’onore, Sagan è riuscito comunque a portare la Slovacchia sul tetto del mondo vincendo tre mondiali consecutivi (unico nella storia), una Parigi-Roubaix, un Giro delle Fiandre, sette maglie verdi al Tour e tante altre corse. Talenti così ne nascono veramente pochi. Inoltre, nessun atleta dal “dopo Armstrong” era riuscito a catalizzare così tanto l’attenzione dei media, diventando a tutti gli effetti un’icona pop dello sport. Le sue impennate, la “palpate” alle ragazze sul podio e i suoi aforismi schietti, come il «Chi vive sperando muore cagando», resteranno impressi nella storia del ciclismo del terzo millennio.

Peter Sagan con la maglia di leader della classifica a punti del Tour de France. Foto: Wikipedia.

I sudamericani e le corse di tre settimane

Dal 2013 sono entrati prepotentemente nel novero dei big molti ciclisti provenienti dal Sudamerica. Prima di quella stagione solo un atleta colombiano era riuscito a trionfare in una delle tre grandi corse a tappe: Luis Herrera alla Vuelta del 1987. Proprio nell’anno della vittoria di Herrera nasceva Rigoberto Uràn, il più esperto tra i tanti sudamericani, che però non è mai andato oltre alla seconda piazza in un grande Giro.

I veri campioni affermati con dei successi rilevanti sono tre. Il primo è Nairo Quintana, colombiano, vincitore di un Giro e di una Vuelta, che ha avuto la sfortuna di trovarsi spesso di fronte a Chris Froome che per tre volte gli ha negato la gioia del Tour de France. Poi c’è Egan Bernal, colombiano, che a detta di molti farà incetta di vittorie e che, all’età di 22 anni, si è portato a casa la sua prima Grande Boucle relegando al ruolo di gregario il capitano Geraint Thomas. Infine Richard Carapaz, ecuadoriano, campione in carica del Giro d’Italia, meno talentuoso degli altri due ma di assoluto valore. Inoltre, la nazionale colombiana continua a sperare nella definitiva consacrazione di Miguel Angel Lopez che tuttavia stenta ad arrivare.

Egan Bernal alla Grande Boucle 2019. Foto: Wikimedia Commons

Le incognite slovene

In Slovenia, così come in Slovacchia, il ciclismo è entrato nelle case degli abitanti da poco. Una nazione con scarsa tradizione ciclistica che dal recente exploit di Primož Roglič è diventata un punto di riferimento nella geografia di questo sport. Nessun atleta sloveno in 282 edizioni dei grandi Giri era riuscito ad alzare le braccia al cielo dopo l’ultima tappa. L’impresa l’ha portata a termine proprio Roglič nel 283esimo giro, l’ultimo disputato in ordine cronologico, ossia la Vuelta del 2019.

Il classe 1989 ha ancora qualche anno per arricchire il suo palmarès, ma la Slovenia sta già mettendo gli occhi sul giovane talento che darà battaglia a Bernal fino alla fine di questo decennio: Tadej Pogačar. Il talento classe 1998 ha concluso la Vuelta ’19 al terzo posto, portando addirittura due bandiere slovene sul podio di Madrid.

Primož Roglič e Romain Bardet. Foto: Wikipedia.

Ciò che possiamo aspettarci dal futuro è dunque un consolidamento di questa nuova geografia del ciclismo mondiale. Nelle corse di un giorno le quattro nazioni storiche restano le migliori, con i vari Alaphilippe e gli esperti ciclisti belga. Ci sarà spazio per l’Italia in questo nuovo quadro? Se nelle classiche monumento ci siamo ritagliati il nostro spazio, gli azzurri saranno in grado di competere anche nei grandi Giri? Con il lento (e triste) declino di Fabio Aru e l’avanzare dell’età di Vincenzo Nibali, l’uomo su cui puntare sarà Giulio Ciccone.

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