Alcuni giorni fa è uscito sul Fatto Quotidiano un articolo di Selvaggia Lucarelli, dal titolo: La Bestiolina imita la Bestia e fa steccare i ‘buoni’ del Pd, in cui la giornalista critica lo stile “petaloso” con cui il giornalista e politico Lorenzo Tosa e i suoi vari epigoni (come Fabrizio Delprete, Emilio Mola, Leonardo Cecchi, Cathy La Torre) dalle loro pagine Facebook filtrano e riportano le notizie di attualità. Effettivamente, nell’ultimo anno Tosa e compagni hanno costruito un metodo narrativo che è diventato un vero e proprio fenomeno dei social. Proviamo allora ad analizzarne il post tipico.
Gli incipit di solito cominciano con una localizzazione geografica – «Platamona, una spiaggia qualunque del nord della Sardegna»; «Livorno, piazza Garibaldi»; «Lizzano, piccolo comune di diecimila anime in provincia di Taranto»; «Grugliasco, Torino» – o presentando il protagonista dell’episodio di cronaca, come se fosse un rapporto – «Brunello Cucinelli non è solo un imprenditore illuminato»; «E poi arriva lui, Pierfrancesco Diliberto in arte Pif, palermitano, siciliano, italiano, uomo di lotta e di resistenza»; «Anthony Mmesoma Madu ha 11 anni e un sogno: diventare un ballerino professionista». Queste poche righe dirette danno una prima informazione, un primo nucleo che invoglia il lettore a continuare a leggere il post.
Dopo questa prima frase viene sinteticamente esposta la vicenda, espandendo il nucleo iniziale dell’incipit. Vengono cioè fornite ulteriori informazioni sul luogo e sui protagonisti, illustrando il contesto. Spesso, lo svolgimento è una successione di brevissimi paragrafi di quattro o cinque righe, composti a loro volta da periodi brevi e secchi, in cui a volte ai fatti, per spezzare il ritmo, si alternano le opinioni personali di Tosa. In pratica si tratta di mini articoli di giornale prosciugati di ogni elemento superfluo e ridotti all’osso, quasi lanci d’agenzia, su cui Tosa innesta il suo discorso emozionale, quello che la Lucarelli ha definito “petaloso”.
Si tratta di un discorso sempre edificante, sempre positivo, sempre “umanissimo”, ligio alle istituzioni, che attraverso la retorica va a toccare nel lettore le corde della commozione e dello sdegno solidale e che ha come bersaglio una generale sensibilità di sinistra. Si passa in rassegna una specie di Corte dei Miracoli della lacrimazione facile: pompieri che si rifiutano di togliere striscioni antifascisti, migranti che si realizzano, eroici manifestanti che si oppongono a Salvini, sardine messe alla gogna, sportivi problematici che hanno avuto successo, disabili che entrano in politica, eccetera.
La chiusa finale è una delle infinite declinazioni del “restiamo umani” di Vittorio Arrigoni. Si tratta di una frase a effetto, che condensa il giudizio personale di Tosa sugli avvenimenti appena elencati, mostrando una vasta gamma di emozioni, sempre ascrivibili a una specie di Bignami dei buoni sentimenti (o alla mancanza di essi):
Questi motti finali hanno la funzione di salvare il lettore dalle eventuali, minuscole controversie che sarebbero potute nascere nel corso della lettura, riportando ogni pensiero critico dissonante nell’alveo della bontà e dei sentimenti pacifici e di creare un ponte emotivo, edificato sulla frase di turno, tra Tosa e il suo pubblico.
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Dopo la lettura di svariati post di Lorenzo Tosa, si delinea una certezza lampante: c’è qualcosa che manca, e la sua assenza non riesce a essere compensata dalla quantità di retorica che permea i suoi scritti. Questo qualcosa è il conflitto. Nell’epica dei buoni sentimenti di Tosa è completamente assente quella componente che ha fatto grande la sinistra nel Novecento e che dovrebbe costituirne l’anima, se questa vuole continuare a essere una forza egualitaria di sovvertimento dello status quo.
È vero, Tosa parla di femminismo e razzismo, ma lo fa sempre da una dimensione consolatoria, a lieto fine, zuccherosa. In questi nostri tempi di rivolte popolari, sconvolgimenti geopolitici, #blacklivesmatter e #fridaysforfuture non c’è il minimo accenno a una prospettiva di lotta (di classe o no), di contrasto al neoliberismo e di sovvertimento dei paradigmi dominanti. La prospettiva di Tosa appiana la complessità del mondo (e dunque non può restituirne la verità) e riduce la realtà a una lotta tra Bene e Male, dove noi siamo i buoni e loro i cattivi.
Quello di Tosa ed epigoni è un muoversi in superficie, in cui si capta la notizia giusta, la si ricopre di una patina dolce di sentimentalismo e la si consegna ai lettori, che lentamente si assuefanno a questa modalità comunicativa. Non si scava mai a fondo per cogliere la dinamica autentica dei fenomeni, non si tenta mai un discorso analitico. Non si propone un’alternativa vera, se non il solito leitmotiv di combattere l’odio e diffondere “speranza”, cosa che parrebbe essere più adatta a una suora, o al limite al Papa, che a un supposto paladino della sinistra. Il mondo ha un disperato bisogno di una rivoluzione, anzi, di tante rivoluzioni, e per farlo la “bontà” da sola potrebbe non bastare.
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