Il 7 luglio 2020, circa centocinquanta intellettuali tra cui Margaret Atwood, J. K. Rowling e Noam Chomsky hanno apposto le proprie firme a coda di un testo che si propone di difendere gli intoccabili principi della libertà d’espressione. Si tratta della cosiddetta Letter on Justice and Open Debate, una lettera sulla giustizia e sul dibattito libero, pubblicata sulla rivista americana Harper’s Magazine. Chi l’ha firmata ritiene che oggi il diritto a una discussione aperta e senza censure sia sempre più imbrigliato da una strana forma di moralismo intollerante che, per paura vi si possano celare affronti alle vittime dell’oppressione xenofoba, sessista o omofoba, mette a tacere a forza di tweet pareri dissonanti provenienti da grandi personaggi del mondo letterario, opinionisti, accademici e via dicendo, indipendentemente dal contesto e dall’entità della dichiarazione.
È questa la spinosa questione della cancel culture, che mira ad annullare per l’appunto la reputazione professionale e la presenza mediatica di chi si è espresso (quasi sempre online) in modo controverso, trascinandolo al centro di pubbliche manifestazioni di ostilità. Non un tema nuovo quindi, visto che le minacce della censura ribolliscono sin dai tempi più antichi. Ma è curioso che, forse per la convinzione che il problema si sia esacerbato soprattutto in tempi più recenti, i firmatari abbiano deciso di impugnare proprio oggi la penna contro il silenzio obbligato dalla paura delle conseguenze.
Conseguenze che, peraltro, non sono tardate ad arrivare neanche per loro, visto che la lettera sul dibattito libero ha suscitato aspra polemica tra chi ha scoperto i nomi dei propri beniamini sulla lista delle adesioni, in un crescendo di scontri e scintille che sono ancora molto accesi, soprattutto in Paesi come il Regno Unito e, comprensibilmente, gli Stati Uniti. Abbiamo deciso dunque di proporre su theWise Magazine un’analisi approfondita del messaggio della lettera, per comprenderne richieste, contraddizioni e postulati più o meno centrati. Per mancanza di spazio ne riportiamo solo alcuni spezzoni. Il testo per intero si può trovare nella versione originale inglese su Harper’s Magazine, e nella traduzione italiana su il Post. Quest’ultima è la traduzione utilizzata nei brani riportati.
Che cosa dice (implicitamente) la lettera sul dibattito libero
Gli intellettuali firmatari esordiscono perentoriamente:
«Le nostre istituzioni culturali sono sotto processo. Le grandi proteste contro il razzismo e per la giustizia sociale stanno portando avanti sacrosante richieste di riforma della polizia, insieme a più ampie rivendicazioni per maggiori equità e inclusività nella nostra società, compresa l’università, il giornalismo, la filantropia e le arti. Ma questa necessaria presa di coscienza ha anche intensificato una nuova serie di atteggiamenti moralisti e impegni politici che tendono a indebolire il dibattito pubblico e la tolleranza per le differenze, a favore del conformismo ideologico. Mentre ci rallegriamo per il primo sviluppo, ci pronunciamo contro il secondo. Le forze illiberali si stanno rafforzando in tutto il mondo e hanno un alleato potente in Donald Trump, che rappresenta una vera minaccia per la democrazia. Ma non bisogna permettere che la resistenza si irrigidisca intorno a un suo tipo di dogmatismo e coercizione, che i populisti di destra stanno già sfruttando. L’inclusione democratica che vogliamo si può raggiungere solo denunciando il clima intollerante che si è creato da entrambe le parti».
La lettera sfrutta il contesto di Black Lives Matter e degli aspri scontri (ideologici, iconografici e non) che ne sono conseguiti per inquadrare il proprio messaggio. Nonostante una recente e assai lodevole boccata d’aria fresca, proveniente soprattutto da chi non ha paura di alzare la voce per i propri diritti, stia rendendo più palpabile il desiderio di una società equamente partecipe alla cosa pubblica, la tendenza a tacciare opinioni divergenti come offensive minaccia di creare un paradossale cortocircuito.
Il regresso causato dall’intolleranza e dalla chiusura mentale a idee giudicate troppo controverse, avvertibili con sempre maggior frequenza sui social e altri mezzi di comunicazione di massa, porterebbe infatti la sinistra liberale con le sue sacrosante conquiste ad assimilarsi inesorabilmente al dogmatismo e conformismo ideologico su cui puntano i partiti populisti. Per evitare dunque queste presunte derive illiberali, è fondamentale battersi per il libero scambio di informazioni e di idee, opponendosi alla censura e a quell’irresistibile fascino che moralismo cieco e gogna pubblica esercitano sui giovani e sugli attivisti più intransigenti.
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Fin qui tutto bene? Non proprio, a meno non che ci si fermi a una lettura superficiale. Il messaggio a livello di principi teorici è giusto e condivisibile, ma i mezzi retorici con cui la lettera sul dibattito libero è stata scritta lasciano trapelare diverse stonature. Guardando alla versione originale, infatti, si noteranno sfumature di significato che la traduzione italiana di il Post ha incolpevolmente tralasciato. Gli atteggiamenti moralisti e gli impegni politici a cui si fa riferimento non tendono semplicemente a indebolire «il dibattito pubblico e la tolleranza per le differenze», come hanno tradotto, ma più precisamente «le nostre norme (our norms) di dibattito pubblico».
Parafrasando l’espressione, si potrebbe dire che ciò che i firmatari sembrano reclamare davvero sia la consueta capacità di arrogarsi il diritto di fissare i parametri entro i quali una discussione andrebbe condotta (parametri che peraltro non verranno mai delineati chiaramente nella lettera). È questo un potere che oggi, a detta degli aderenti, risulta sempre più minato da chi, non godendo di una stazza intellettuale pari alla loro, guadagnata con gli anni attraverso articoli o sui palcoscenici delle sale conferenze, ripiega piuttosto sui social per farsi sentire. Questo, spesso, con esiti professionali tragici per chi si azzarda a lanciare dal pulpito un’opinione non condivisa dalla più variegata comunità digitale.
Come ha sottolineato Billy Bragg su The Guardian, molti di coloro che hanno aderito alla lettera hanno alle proprie spalle una lunga e duratura storia da arbitri della cultura che, in passato, non avevano da temere che il giudizio dei loro pari. I social media hanno però fatto scoppiare la loro bolla, rivelando che chiunque abbia un account Twitter oggi può contrastare le loro visioni e portare non di rado al licenziamento dell’interessato o al suo public shaming. La lettera sul dibattito libero mette quindi sul tavolo la richiesta di un safe space, che tuttavia a un esame più attento sembrerebbe non rappresentare soltanto una zona di comfort per chi intende rivendicare legittimamente la possibilità di sperimentare e di fare errori attraverso ricerca accademica, editoriali e via dicendo, al sicuro da repentini ostracismi per pensieri etichettati come poco ortodossi.
Per i termini in cui è espressa, essa finisce verosimilmente per accostare alle richieste legittime dei firmatari anche il capriccio di non essere contraddetti per non perdere la propria sfera di influenza, come si deduce dai toni lamentosi e dalle modalità un po’ frettolose impiegate nella stesura della missiva.
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Vale la pena ribadirlo ancora: il problema della lettera non è affatto il messaggio in sé, l’appello cioè a non soffocare il dibattito libero, quanto certi termini ed espressioni che dovrebbero con più forza veicolarlo. L’utilizzo del vocabolo «norms», ad esempio, fa pensare a una direzione prestabilita e univoca della trasmissione del sapere e dell’incitamento alla discussione, ossia dall’alto verso il basso, mai viceversa, mentre il possessivo «nostre» pone irrimediabilmente i centocinquanta aderenti alla cima di questa gerarchia invisibile, all’interno di una torre d’avorio dalla quale possono amministrare gelosamente le chiavi del verbum.
Quello che dovrebbe rappresentare un invito alla libertà di esprimere disaccordo e opinioni divergenti si trasforma, per lo più per mancanza di trasparenza nella scrittura, in una sorta di dichiarazione velata di potere, il potere cioè di stabilire (dall’alto) quali parole ed espressioni siano giuste e quali sbagliate in un dibattito a senso unico, che dunque dibattito non è più. Non nuoce ricordare che l’impianto sociale a poco a poco più diversificato che si sta facendo strada oggi, tra infinite battaglie contro soprusi e discriminazioni su base razziale o sessuale, è il prodotto di una mentalità che sta lentamente, e finalmente, cambiando.
Per questo, il concetto di «norma» su cui si fa leva nella lettera non sussiste: se nella storia nessuno avesse avuto il coraggio di mettere in discussione, per l’appunto, le norme vigenti al proprio tempo, norme che per decenni o addirittura secoli hanno promosso spaccature e oppressioni all’interno di una società civile e protetto omertosamente visioni parziali e bigotte del genere umano, non tutti godrebbero del progresso, per quanto ancora in corso, di cui siamo figli noi oggi.
E se davvero, come dichiarato nella lettera, gli intellettuali si rallegrano di recenti sviluppi quali le richieste di riformare il corpo poliziesco e una partecipazione più democratica e inclusiva alla cosa pubblica, dovrebbero anche rallegrarsi del fatto che alcune delle loro norme possano essere messe in discussione da categorie sociali che sono state lungamente escluse dal dibattito pubblico, perché in teoria è proprio la discussione libera che dovrebbe rappresentare, sempre secondo la lettera, l’obiettivo ultimo a cui tendere congiuntamente.
Impostato in questi termini, invece, il messaggio di Harper’s Magazine sembra inevitabilmente porsi come meta finale il mantenimento di un privilegio – obiettivo registrabile peraltro anche nello stile. Caratteristica ricorrente della lettera è infatti l’utilizzo del “ma”, ripetuto quasi sempre dopo un’affermazione che riguarda proteste o cambiamenti in atto dello status quo: «Le grandi proteste contro il razzismo e per la giustizia sociale stanno portando avanti sacrosante richieste […] ma questa necessaria presa di coscienza ha anche intensificato una nuova serie di atteggiamenti moralisti»; «le forze illiberali si stanno rafforzando in tutto il mondo e hanno un alleato potente in Donald Trump, che rappresenta una vera minaccia per la democrazia. Ma non bisogna permettere che la resistenza si irrigidisca intorno a un suo tipo di dogmatismo e coercizione» [enfasi dell’autrice].
L’accento sull’avversativa finisce per spostare l’attenzione dall’importanza di battersi per il progresso sociale alla necessità di normalizzare tale battaglia in qualche modo attraverso un dibattito libero e senza regole, o per meglio dire un dibattito le cui regole non esistono fino a che chi le ha tacitamente stabilite non decide di chiamarle in causa. È chiaro che il lettore finirà per perdere l’orientamento, come se la lettera, volutamente o meno a seconda della malizia di chi la interpreta, si macchiasse dell’assoluta assenza di un senso gerarchico di priorità (nonché, secondo alcuni, di cattivo tempismo): è meno grave alzare a sproposito la voce per difendere i diritti dei più vulnerabili, o lasciar correre sempre e comunque per non sembrare moralisti o turbare l’ego di qualcuno?
La lettera pecca inoltre di contraddizioni: non solo, come visto prima, si propone di promuovere un dibattito libero appellandosi tuttavia a “norme” imprecisate e vaghe, che sembrano voler tutelare soltanto le posizioni di chi sta (anche solo professionalmente) ai piani alti della società, e mai chi viene dal basso; ma mentre afferma che la divergenza di opinioni è sacrosanta e va tutelata, al contempo dichiara di prendere fortemente le distanze dall’intolleranza di Trump e delle destre populiste, aliene alle ideologie di chi firma. Se la libera discussione è fatta di sfumature e di ciò che sta nel mezzo, perché schierarsi così nettamente da una parte o dall’altra?
Il dibattito delle idee finisce per trasformarsi in dibattito tra ideologie e schieramenti polarizzati. Pierluigi Battista in un articolo del Corriere della Sera ha elogiato la lettera come una coraggiosa presa di posizione contro il manicheismo, ovvero quella tendenza a contrapporre dogmaticamente tutto ciò che di irreconciliabile si incontra, come se tutto fosse soltanto o giusto o sbagliato, o nero o bianco. Tuttavia, questa dannosa polarizzazione delle idee si avverte anche nel messaggio lanciato dai centocinquanta, che contrappongono senza eccezioni il Bene della sinistra liberale al Male della destra populista.
E qui è doveroso fare una precisazione. È chiaro che certe prese di posizione di Trump o del leader estremista di turno siano da aborrire proprio come la lettera sottolinea, dalle battute sessiste alle dichiarazioni razziste; ma finché non si stabilisce insieme, e cioè non solo dai piani alti, un terreno fertile sul quale seminare una discussione accesa ma rispettosa, ogni argomento o pensiero rimane paradossalmente discutibile e indiscutibile a seconda degli orientamenti politici – persino le affermazioni su cui c’è ben poco da dibattere. La mancanza di esempi concreti che si avverte nella lettera sul dibattito libero è deleteria per il messaggio che vuole promuovere. Imprecisati riferimenti a «redattori licenziati per aver pubblicato articoli controversi, […] giornalisti a cui è stato vietato scrivere di certi temi, […] ricercatori licenziati per aver condiviso uno studio accademico pubblicato su una ricerca scientifica», senza nomi né situazioni precisi, è tutto ciò che la lettera ha da offrirci, e francamente non ci basta.
La cancel culture è anche, fondamentalmente, un problema di confini: dichiarare che «Qualunque siano le circostanze di ciascun caso, il risultato è che i limiti di quello che si può dire senza timore di ritorsioni si sono assottigliati», come si legge nella lettera, significa voler ignorare che è proprio il contesto di un caso specifico che può aiutarci a tracciare una linea tra un’opinione controversa o mal formulata (ma comunque discutibile) e cattiveria gratuita e pericolosa.
E invece nella lettera non ci sono né paletti né casi specifici, quando il semplice buon senso basterebbe a far suonare un campanello d’allarme ogniqualvolta un’affermazione si ponga a minaccia dell’esistenza sessuale, etnica e in senso più profondo umana del singolo. Per citare lo scrittore afroamericano James Baldwin: «Possiamo essere in disaccordo e tuttavia volerci bene, a meno che il tuo disaccordo sia radicato nella mia oppressione, nella negazione della mia umanità e del mio diritto di esistere» [traduzione italiana dell’autrice].
La lettera sul dibattito libero, pur lanciando un messaggio sacrosanto, finisce per fagocitare le buone intenzioni degli intellettuali che l’hanno sottoscritta con il suo stesso astrattismo, e con loro anche chi l’ha elogiata altrove. Tornando all’articolo del Corriere, Battista diversamente dai firmatari fa sì qualche esempio concreto, ma senza distinzioni di sorta. La cancel culture, egli dichiara, si manifesta in circostanze «in cui un’opinione, discutibile come tutte le opinioni, viene equiparata a una manifestazione di malvagità e dunque considerata meritevole di punizione» [enfasi dell’autrice].
Ma è davvero legittimo affermare che un’opinione che lede i diritti fondamentali di un individuo possa sempre essere discussa, e senza conseguenze? I casi che Battista cita sono molto più che controversi: il giornalista, ad esempio, si impelaga nel tentativo di dare un quadro del caso J. K. Rowling, tacciata di transfobia, ma il risultato è estremamente incompleto. «Questo è il punto», dice Battista: l’autrice di Harry Potter è stata accusata soprattutto «per essere intervenuta in difesa di una donna che aveva perso il posto di lavoro» per aver sostenuto opinioni analoghe alle sue, cioè per aver difeso il principio dell’identità biologica delle donne.
E invece il punto non è affatto questo, perché la questione va ben oltre un semplice tweet. L’autrice di Harry Potter si è spinta a paragonare, senza mostrare adeguate competenze e conoscenze in materia, la terapia ormonale gender-affirming per gli individui trans alla pratica della conversion therapy, entrambe definite (erroneamente) dannose e risultanti nella possibile perdita della fertilità e funzione sessuale. Le sue convinzioni hanno portato la scrittrice a scadere in espressioni verbali nocive e pressappochiste, che feriscono chi queste pratiche le ha vissute in prima persona: dal voler sottintendere con disarmante semplicismo che le persone transessuali non riconoscono l’esistenza del sesso biologico al confondere grossolanamente orientamento e identità sessuale.
Che cosa la lettera avrebbe potuto (o dovuto) dire
Insomma, a difesa della credenza un po’ viziosa che si possa e si debba per forza discutere su tutto (senza però regolare in primis le modalità di tale discussione, in nome del rispetto di entrambe le parti), chi ha firmato o elogiato la lettera sul dibattito libero ha quasi sempre commesso l’inconsapevole errore di distogliere l’attenzione dal vero e autentico messaggio che essa si proponeva: sii tollerante con chi può avere idee anche radicalmente diverse dalle tue, ma che rispetta la tua dignità di uomo e parlando non produce aria fritta, bensì argomentazioni razionali e sufficientemente supportate da dati.
Ed è un vero peccato, perché per rendere trasparente il messaggio della lettera ci sarebbero migliaia di casi specifici e nomi da citare, molti dei quali peraltro non si registrano neppure nella cerchia dei firmatari. Lampante è il caso di David Shor, fino a poco tempo fa data analyst per Civis Analytics, colpevole di aver sostanzialmente svolto il suo lavoro. Dal momento che il suo compito era analizzare per l’azienda fattori sulla base dei quali i Democratici americani potessero vincere le elezioni, Shor aveva deciso di condividere su Twitter uno studio del professore di Princeton Omar Wasow, pubblicato sulla più prestigiosa rivista di political science del Paese, in cui si sostiene (sulla base di dati e fonti attendibili) che negli anni Sessanta le proteste pacifiche per i diritti civili si rivelarono più efficaci di quelle violente dal punto di vista politico.
Visto che il tweet uscì in concomitanza con l’esplosione delle proteste per la morte di George Floyd, una valanga di commenti indignati su Twitter ha agognato e ottenuto il licenziamento di Shor (per analoghi esempi si veda The Atlantic).
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La necessità di valutare ogni contesto con attenzione è oggi più che mai imperativa, per evitare che la percezione dell’importanza di certe battaglie perda nitidezza a causa di grossolani errori e manipolazioni ideologiche, e a rimetterci siano le stesse vittime. E questo lo dice senza fronzoli anche la lettera – sebbene il suo problema, lo ripetiamo, sia l’incongruenza di appellarsi a una causa legittima per non perdere un privilegio illegittimo: «Questa atmosfera opprimente finirà per danneggiare le cause più importanti dei nostri tempi. I limiti al dibattito, che dipendano da un governo repressivo o da una società intollerante, finiscono ugualmente per fare del male di più a chi non ha potere, e rendono tutti meno capaci di partecipare alla democrazia».
Viene in mente un’affermazione che Ian McEwan fece tempo fa sul caso Weinstein e il movimento MeToo. «Non sappiamo cosa sia veramente successo» aveva detto relativamente alla vicenda del predatore-produttore di Hollywood, «ma a me piace sempre incoraggiare un certo grado di scetticismo una volta che la piazza si è scatenata. Dunque sospenderò il giudizio». Un’opinione senza dubbio discutibile, che non a caso ha fatto inferocire numerose femministe. Ma sospendere temporaneamente il giudizio per vedere che succede è ben diverso dal negare l’accaduto, o dal diffamare le vittime con insulti o schernimento. Lungi da McEwan farsi portavoce di istanze sessiste, come chi ha letto i lavori dello scrittore britannico, di tendenze decisamente progressiste, sa bene.
Basta guardare al suo ultimo libro, Lo scarafaggio, un breve romanzo satirico che si fa beffe di Johnson, della Brexit e di Trump, per accorgersene. Uno dei momenti salienti della storia è infatti quando il primo ministro, che altri non è che uno scarafaggio fattosi uomo in una sorta di ribaltamento kafkiano, si accorda con la segretaria Jane per far fuori lo scomodo ministro degli Esteri: ella farà credere all’opinione pubblica di aver subito da quest’ultimo molestie, prepotenze verbali e palpeggiamenti, ma mai violenza fisica. Così, il giorno successivo alle dichiarazioni, troviamo il PM beatamente seduto nel suo ufficio che esamina un articolo di giornale (Vergogna per il Ministro degli Esteri) riflettendo al contempo sulla faziosità ripugnante e irrispettosa di ciò che è stato scritto:
«Doveva darne atto a Jane. Una tale congerie di crudeli e spudorate menzogne. Un tale oltraggio alle autentiche vittime del potere maschile. Ma così incorniciata nei confini di quelle pagine, la storia generava una sua propria verità […]. Che quei fatti si fossero verificati oppure no, era innegabile che avrebbero potuto, con tale facilità anzi, che dovevano essere successi senz’altro. Certo che sì! Cominciava a sentirsi indignato a nome di Jane».
Le parole del ventriloquo McEwan sono parole di aspra denuncia per il comportamento vigliacco e opportunista del politico e della sua collaboratrice, che delineano uno scenario (estremamente plausibile) in cui cause sociali sacrosante vengono manipolate e demonizzate da coloro che, dai piani alti, dovrebbero invece far buon uso del proprio potere per proteggere le vittime.
E questo purtroppo non succede soltanto nei racconti satirici di finzione. Quando nel 2004 l’affermata accademica (e presunta femminista) americana Naomi Wolf dichiarò sul New York Times che un professore di Yale le aveva toccato l’interno coscia (un episodio risalente al 1983), negando si trattasse di violenza ma al contempo sottolineando di come avesse tenuto nascosto il fatto per ventun anni – e di come questo potesse rappresentare, a suo avviso, una prova per incriminare gli accademici di Yale – la critica e scrittrice Meghan O’Rourke si infuriò.
«[La Wolf] balza da un loop verbale all’altro dichiarando di non essere rimasta “personalmente traumatizzata”, eppure per interi paragrafi non fa altro che descrivere l’accaduto precisamente in quei termini […]. Le omissioni e la sua imprecisione sono pane per i denti degli scettici che pensano che le accuse di molestia sessuale siano spesso una semplice forma di isteria» [traduzione dell’autrice].
La Wolf non solo manipolò un’ esperienza personale per fare generalizzazioni sull’intero staff accademico maschile di Yale, accusato di cedere troppo facilmente alla tentazione delle molestie; ma non si premurò neppure di intervistare altre studentesse per confermare le proprie dichiarazioni. Scrittori come McEwan e la O’Rourke ci invitano dunque a giudicare con spirito critico il caso specifico, per evitare che qualche rara ma fatale Jane moderna possa sminuire il dolore delle vere vittime e il loro diritto a essere credute. Gli intellettuali che hanno firmato la lettera sul dibattito libero avrebbero dovuto fare la stessa cosa, usando la stessa chiarezza.
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Che cosa ci rimane
È giunto il momento di trarre alcune conclusioni. Prima di tutto, notiamo che al centro del problema della cancel culture e del dibattito attorno ad essa ci sia una fondamentale incapacità di comunicare (e di comprendere) messaggi in modo efficace. Con motivazioni più articolate, supportate dai giusti esempi, la lettera sul dibattito libero avrebbe lasciato ben altre impressioni. Dobbiamo poi capire che c’è una differenza sostanziale tra chi, come il leghista Matteo Gazzini, dice testualmente che non c’è libertà d’espressione se non si permette a qualcuno di essere razzista e chi, come il professore (e firmatario) Steven Pinker, condivide su Twitter un articolo che mostra dei dati raccolti sul New York Times sugli omicidi in America da parte della polizia, sostenendo che se in molti casi il racial bias possa influire in modo determinante sui poliziotti, il problema di fondo rimane comunque il corpo poliziesco americano in sé, che uccide con troppa facilità sia bianchi che neri.
È una differenza di modalità di espressione, di come si supportano le proprie argomentazioni. Ed è quindi paradossale che Pinker abbia ricevuto gli stessi capi d’accusa di Gazzini (numerosi accademici hanno senza successo firmato una petizione per espellerlo dalla Linguistics Society of America a seguito dei suoi tweet, includendo anche firme fasulle), quando la sua opinione, per quanto dibattibile e esposta a smentite, non incita in alcun modo a comportamenti razzisti, che minaccino fisicamente o verbalmente la comunità nera.
Alla fine, la pecca più grande della lettera sul dibattito libero è che dimostra di fallire nella qualità che più si propone di difendere e promuovere: le parole. I firmatari, con la loro vaghezza, hanno perso una grande occasione per lanciare un messaggio importante. C’erano tutti i presupposti per fornire un sano cambio di prospettiva sulla questione del “politicamente corretto”, che in Italia come altrove viene spesso additato come la piaga della sinistra liberale da parte dei populisti di destra.
In questo caso, invece, gli intellettuali progressisti avrebbero potuto utilizzare con sapienza le proprie armi verbali per scrollarsi di dosso un’etichetta ridicola, e per arricchire un’antica e forse troppo astratta formulazione ideologica di tolleranza con significati e prese di posizione che condannino tutti quei casi in cui si cestinano con troppa fretta le opinioni del diverso, del rivale, o addirittura del nemico. Che la discussione si stia davvero impoverendo, in fondo, lo si può vedere non solo dagli esempi sopra citati, ma anche dalla confusione e indignazione mediatica che alcune adesioni alla lettera hanno generato. L’attivista transgender Jennifer Finney Boylan si è dovuta scusare pubblicamente per avere firmato la lettera, e ha chiesto che il suo nome venisse rimosso adducendo a sua discolpa di non aver saputo prima che certi firmatari a lei non graditi (con probabile riferimento alla Rowling) avessero aderito.
Questo ripensamento non solo dimostra come il messaggio della lettera non sia stato compreso a fondo, dal momento che il punto di aderire alla lista era proprio quello di accettare la compresenza, al suo interno, di persone con ideologie radicalmente diverse dalle proprie; ma rivela anche una paura di fondo, quella di esporsi troppo con le proprie idee per le conseguenze che potrebbero derivarne, soprattutto in seguito alle interpretazioni e ai filtri malevoli dei media.
Ci spetta dunque una riflessione finale sull’uso dei social, che oltre a renderci tutti uguali, poiché forniscono a tutti la possibilità di lasciare commenti, dovrebbero renderci anche più responsabili. Nessuno è esente da critiche, neppure un’autrice che ha venduto milioni di copie. Ma allora è bene ricordare che anche noi comuni mortali raccogliamo quello che seminiamo. Perché nell’episodio Odio universale di Black Mirror non muore soltanto Jo Powers, editorialista colpevole di aver scritto un articolo spietato contro una disabile; ma anche chi aveva ferocemente agognato la sua morte a suon di hashtag sul social network di turno. Per non incorrere, metaforicamente, nella stessa fine, ci bastano orecchie e cuori un po’ più aperti, empatia, e qualche secondo in più prima del clic del mouse.