Lo scorso martedì 21 luglio si è concluso a Bruxelles uno dei Consigli Europei più lunghi della storia dell’Unione. Alcuni dicono che i 27 capi di Stato e di governo dell’UE abbiano addirittura battuto il record di durata detenuto dal Consiglio di Nizza del 2000; altri sostengono che invece sia stato più breve di venticinque minuti. Ad ogni modo, dopo quattro giorni e tre notti di trattative, si è finalmente raggiunto un accordo sul Recovery Fund e sul bilancio pluriennale dell’UE. In Italia, la vittoria sul Fondo per la Ripresa – di cui il nostro Paese sarà il maggior beneficiario – ha in parte offuscato l’intero negoziato e l’importanza che esso detiene nella storia dell’Unione.
Per giorni, i media italiani hanno parlato di quanto difficile fosse portare avanti il negoziato in Europa, viste le posizioni divergenti dei Paesi. Gli schieramenti principali erano due. Da un lato i Paesi più colpiti dal Coronavirus, come Spagna, Francia e Italia, a cui pian piano si sono accodati molti altri. Dall’altro i cosiddetti “frugali” guidati dall’olandese Mark Rutte: Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia. Questi ultimi sembravano decisi a non concedere risorse a fondo perduto nell’ambito del Fondo della Ripresa (rinominato Next Generation EU), eppure così non è stato. 750 miliardi di euro sono stati stanziati per il Fondo per la Ripresa, di cui 390 sotto forma di sussidi a fondo perduto, che i Paesi beneficiari non dovranno restituire. Cos’è che ha fatto cambiare idea ai cosiddetti frugal five? Da quel che è emerso, la partita si è giocata principalmente sul negoziato del Quadro Finanziario Pluriennale.
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Ogni sette anni, i Paesi membri dell’Unione negoziano il bilancio pluriennale valido per i successivi sette anni. Non si tratta solamente di decidere una cifra. Le trattative riguardano, in particolar modo, la ripartizione delle risorse dell’Unione. I Paesi stabiliscono delle linee guida su come e in quali settori usare i soldi stanziati; linee guida che raramente subiscono importanti cambiamenti nel corso dei sette anni. Il negoziato sul bilancio pluriennale è perciò un passaggio tanto fondamentale quanto delicato. Per quanto riguarda il pacchetto di risorse per il periodo 2021-2027, la sua approvazione era nell’agenda dei vari Consigli Europei ormai da tempo, ma i leader non erano ancora riusciti a trovare un accordo.
L’emergenza Coronavirus ha sicuramente aiutato ad accelerare il processo, vista la necessità di stanziare dei fondi per la ripresa economica. Il negoziato si è concluso con l’approvazione di un pacchetto da 1.824 miliardi di euro. Oltre ai 750 miliardi stanziati per il Fondo della Ripresa, ce ne sono 1.074 per il nuovo bilancio (quello precedente, in cui c’era anche il Regno Unito, contava circa 959 miliardi). La cifra verrà finanziata dai trasferimenti che i Paesi membri effettuano all’Unione annualmente, in diverse forme. L’entità del contributo viene decisa in base alla popolazione e al PIL di ogni Stato nazionale.
Per quanto riguarda il Fondo per la Ripresa, le risorse saranno principalmente spese attraverso lo strumento del Recovery and Resilience Facility (RRF) che aiuterà le economie dei Paesi più colpiti dalla pandemia a riprendersi. Mentre i fondi del bilancio pluriennale saranno suddivisi nei diversi settori. La Politica Agricola Comune (PAC) avrà circa 336 miliardi di euro, 46 milioni in meno rispetto al periodo 2014-2020. Circa 350 miliardi andranno al Fondo per la Coesione, che ha l’obiettivo di aiutare i paesi maggiormente arretrati e in difficoltà a colmare i gap economici e di sviluppo con gli altri stati membri. Horizon, il programma dell’Unione per la ricerca e l’innovazione, riceverà circa 80 miliardi di euro. Mentre saranno gli investimenti per raggiungere gli obiettivi climatici e per mettere in atto l’European Green Deal ad assorbire la maggior parte del bilancio, circa il 30%.
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Il premier italiano Conte, dunque, è riuscito a far crollare il muro dei frugal five sul Recovery Fund, ma ha dovuto cedere su altro. L’Italia sarà il Paese che maggiormente beneficerà delle risorse del Fondo per la Ripresa. Si parla di circa 209 miliardi di euro che andranno nelle casse del nostro Paese per far ripartire l’economia e l’intero sistema dopo l’emergenza Coronavirus. Parte dei fondi dovranno essere restituiti, mentre 80 miliardi arriveranno sotto forma di sussidi. L’Italia non è uno dei contributori netti di questo fondo – verserà all’UE meno di quanto riceverà – per cui saranno principalmente i Paesi del Nord a finanziare la nostra ripresa.
Per quanto le loro posizioni iniziali sembrassero irremovibili, lo schieramento guidato dal premier Conte è riuscito ad espugnare la fortezza dei “frugali”, dovendo però cedere su altri versanti del negoziato. D’altronde, il Consiglio Europeo non è un organo sovranazionale: gli Stati detengono il completo potere al suo interno, hanno tutti lo stesso peso e i negoziati sono frutto di lunghe trattative e compromessi. Senza dubbio, in questa occasione la principale merce di scambio sono stati i rebates.
I rebates sono, letteralmente, degli “sconti”: la restituzione ad alcuni Paesi di parte dei loro versamenti nazionali all’Unione. Quello che hanno ottenuto i Paesi frugali, dunque, sono degli sconti sui loro contributi al bilancio pluriennale, come chiedevano dall’inizio dei negoziati. A pagarne maggiormente le conseguenze e, quindi, a compensare la diminuzione dei versamenti da parte di questi paesi saranno principalmente Francia, Spagna e Italia.
L’apparizione del meccanismo dei rebates nell’UE va fatta risalire agli anni Ottanta. All’epoca, Margaret Thatcher ritenne che il Regno Unito contribuisse eccessivamente al bilancio dell’Unione (tramite il versamento di parte dell’IVA), senza beneficiare molto dei sussidi della CEE che, all’epoca, erano principalmente concentrati nel settore agricolo. Dunque, la Comunità Europea decise di concedere uno sconto al Regno Unito pari al 66% del saldo netto del Paese. Da allora, i Paesi che ritengono di contribuire in maniera sproporzionata al bilancio dell’Unione hanno chiesto e ottenuto questi sconti. Si tratta principalmente dei Paesi del Nord, mentre Francia e Italia – seppur contributori netti – non ne hanno mai usufruito.
Dallo scorso anno, poi, con l’imminente uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, il dibattito sui rebates è tornato a galla: molti hanno sostenuto la necessità della loro eliminazione. Tuttavia, in un negoziato difficile come quello delle scorse settimane non era facile fare un passo del genere. Al contrario, i rebates sono diventati una buona merce di scambio per giungere a un compromesso sul Fondo per la Ripresa. I Paesi a beneficiarne di più sono stati Germania, Paesi Bassi, Svezia, Austria e Danimarca.
Gli sconti maggiori riguardano una diminuzione sulla percentuale del versamento dell’IVA. Normalmente, ogni Stato dovrebbe versare all’Unione lo 0,3% del gettito IVA, ma già negli scorsi anni alcuni avevano ricevuto generosi sconti su questo fronte. Nel bilancio 2014-2020, ad esempio, la Germania versava solamente lo 0,15% del gettito IVA. Dunque, i frugali hanno cavalcato l’onda del negoziato sul Recovery Fund non solo per non eliminare il meccanismo dei rebates ma per fare in modo di ricevere ulteriori sconti.
Ad ogni modo, quello raggiunto il 21 luglio è stato un successo non solo per i Paesi, come l’Italia, che beneficeranno maggiormente del Fondo per la Ripresa, ma per tutta l’Unione Europea. L’UE è un’organizzazione internazionale atipica: pur non avendo poteri di bilancio paragonabili a quelli degli Stati nazionali, ha delle risorse proprie da spendere, finanziate principalmente tramite i versamenti degli Stati membri. Per la prima volta nella sua storia, con questo accordo l’Unione emetterà debito comune per finanziare i Paesi membri maggiormente in difficoltà.
Inoltre, di nuovo per la prima volta nella storia, l’UE raccoglierà dai Paesi delle entrate fiscali da non negoziare anticipatamente con gli Stati. Dal primo gennaio 2021, i Paesi dovranno versare all’Unione 80 centesimi per ogni chilo di plastica non riciclata. Si parla anche dell’introduzione di una digital tax e di una carbon border tax, ma le proposte dovrebbero arrivare nel corso del prossimo anno. Si tratta comunque di una novità assoluta e di un primo passo verso maggiore integrazione e verso la fine delle estenuanti trattative sul bilancio pluriennale che ogni sette anni coinvolgono i Paesi membri e non risultano mai facili.
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