Per quanto possiamo essere ancorati a un’idea alta, pura e incorruttibile dell’arte, resta inconfutabile che questa sia stata per secoli un valido strumento di marketing e promozione. Intere generazioni di famiglie nobili e reali hanno fondato parte del loro potere sul mecenatismo, rendendo la cultura un vistoso cartello pubblicitario per la loro affermazione. Ora la rotta risulta invertita, con le personalità in vista che diventano canali di comunicazione per l’arte. Cosa, quindi, ci scandalizza del selfie di Chiara Ferragni alla Galleria degli Uffizi?
La politica dell’arm’s lenght
Se sui social in generale si è scatenata una bufera, nelle echo chamber degli studiosi e addetti ai beni culturali si è assistito a una vera e propria spaccatura. Da una parte, chi vorrebbe una partecipazione statale più attiva – e quindi, meno influencer. Dall’altra, chi vede di buon occhio il marketing nella cultura. Per capire al meglio questa spaccatura, occorre però ritornare a qualche decennio fa.
Corrono gli anni Novanta. In Italia ci si inizia a chiedere se, seguendo il modello inglese del New Public Management, possa essere possibile lasciare più autonomia alle istituzioni culturali. L’idea alla base è quella di tenere le istituzioni “a un braccio di distanza” dal governo. L’arm’s lenght, appunto. Questa distanza permetterebbe ampi spazi di manovra agli enti, sia a livello economico che organizzativo, dando la possibilità di gestire da sé i fondi e slegarsi dai sussidi statali.
Molte sono state le resistenze nel nostro Paese, che ancora oggi fatica a coniugare l’immagine dell’arte con l’economia. Eppure, non solo l’arte necessita di fondi – basti pensare alle opere di mantenimento e restauro che un museo deve sostenere –, ma è in grado di generare indotti economici notevoli. Sempre a Firenze, a dimostrazione di ciò, l’associazione Mus.E aveva analizzato il Ritorno Sociale sull’Investimento (SROI) dell’Associazione, dimostrando che per ogni euro investito in Mus.E, venivano generati altri tre euro circa in altri settori.
Si tratta di un’eredità tutta italiana, che vuole la cultura interamente a carico dello Stato, fuori da ogni dinamica economica e, di conseguenza, di marketing. Da qua si intuisce subito l’astio dimostrato verso una manovra promozionale, considerata superficiale e al di fuori dei canoni considerati accettabili. Rimane, tuttavia, la sensazione che il problema sia ben più intricato e che questo semplice selfie riveli molto di più di quanto non sembri.
Leggi anche: Arte contemporanea: chi ne pensa cosa.
Educazione e promozione
Molti di coloro che si sono opposti a questa “svendita” dell’arte hanno impugnato la definizione di museo dell’International Council of museums (ICOM). Secondo questa,
Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto.
Il fatto che la comunicazione rientri tra le mansioni principali di un museo è stato fulcro del dibattito. Molti infatti si sono chiesti perché si sia dovuti ricorrere a un’influencer per promuovere l’arte. Inoltre, per quanto il cosiddetto effetto Ferragni abbia effettivamente portato dei risultati, questa rimane una comunicazione superficiale. In poche parole, non veicolerebbe un messaggio culturale, ma incentiverebbe una fruizione passeggera e poco significativa.
Questo dibattito ha radici ben più profonde e lontane, risalenti alla riforma Gelmini del 2008. Da anni l’ANISA– Associazione Nazionale Insegnanti di Storia dell’Arte – cerca di mettere in evidenza la contraddizione del tagliare l’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole superiori in un Paese che trabocca di beni culturali. Questo comporta una sempre più labile sensibilità all’arte: manca lo Stato in uno dei settori più importanti per l’Italia. Soprattutto, manca in una delle sue funzioni principali: educare i suoi cittadini e fare in modo che il suo patrimonio culturale arrivi loro. E così come nelle scuole, la sua mancanza si sente anche nell’ambito museale. Non sembra essere possibile infatti una corretta fruizione senza una corretta educazione.
Leggi anche: Le facoltà umanistiche, viste dall’interno.
Quindi il problema non risiede nel selfie di Chiara Ferragni, quanto in quelle istanze che ormai da un decennio vengono denunciati dagli operanti del settore. Eppure, non è certo la prima volta che si ricorre a questi stratagemmi per poter attirare pubblico. Quindi, cosa c’è di diverso stavolta?
Una lunga lista di esempi
Non è di certo difficile trovare un museo che abbia regolarmente affittato i propri spazi per i più disparati eventi o che abbia sfruttato l’immagine di qualche personaggio famoso per la propria promozione. Eclatante fu il caso di Apes**t di Beyoncé e Jay-Z, il cui video fu girato all’interno del Museo del Louvre e, caso tutto italiano, il recente Dorado di Mahmood, Sfera Ebbasta e Feid, girato all’interno del Museo Egizio di Torino. Sempre alla Galleria degli Uffizi, fu protagonista di una visita privata Richard Gere. Volendo invece esplorare avvenimenti ancora più recenti, risale al 25 luglio un post su Instagram di Guglielmo Scilla, in arte Willwoosh, in visita ai Musei Vaticani.
Eppure, la tempesta sui social sembra essersi levata solo per Chiara Ferragni. I commenti – o forse sarebbe meglio dire gli insulti – sono stati numerosi soprattutto sul profilo Instagram degli Uffizi. Molti sembrano ritenere che gli Uffizi non abbiano bisogno di pubblicizzarsi così, ignorando che Chiara Ferragni fosse lì per ben altri motivi, ovvero lo shooting per Vogue Hong Kong. Altri ribadiscono l’importanza di lasciare l’Arte – quella con la A maiuscola – incontaminata. Molti altri però sembrano apprezzare una comunicazione più veloce e giovane dei musei, non vedendo aspetti negativi nel farsi rappresentare da un selfie di un’imprenditrice come Chiara Ferragni.
Questo selfie sembra aver aperto un vaso di Pandora tutto italiano. Un sistema culturale che rifiuta ancora l’idea di marketing nei musei, un sistema educativo che debilita l’arte e le sue potenzialità. Generazioni di critici e operanti nel settore che rimangono ancorati a una divisione tra Arte e arte, tra cultura alta e cultura bassa. Un sistema sociale che forse ancora oggi fa fatica ad accettare che una donna, giovane e imprenditrice riesca a far salire con un semplice post sui social gli ingressi dei giovani al museo del 27%. Allora, forse, non è tanto il selfie incriminato della Ferragni il problema, quanto tutto quello che si nasconde dietro.