Malcolm Lowry, Birkenhead, 1909. Figlio di un commerciante di cotone e nipote di un capitano di navi mercantili. Insofferente da sempre nei confronti del dettame borghese che la famiglia tenta di impartirgli. La scuola lo annoia da bambino, l’università ancor più da adulto. A un certo momento, perciò, salpa per la Cina seguendo le orme di suo nonno, si imbarca come mozzo sulla nave Phyrrus. Scrive dell’esperienza di viaggio in Ultramarina, alla cui stesura contribuisce anche Conrad Aiken. Ironia della sorte, è della moglie di Aiken che s’innamora una prima volta, Jan Gabriel, incontrata durante un viaggio in Spagna.
La relazione tra i due culmina nel matrimonio, nel 1934, ma è destinata a morire. Col passare del tempo, infatti, l’abuso di alcol inasprisce Lowry e rinvigorisce le sue ossessioni. Così il rapporto cresce nel baccano e nel frastuono di tradimenti reali o presunti, gelosie non sempre giustificate, una simbiosi intermittente che ogni volta è sempre più difficile recuperare. I due partono per gli Stati Uniti. Lowry subisce un ricovero di dieci giorni nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Bellevue, è il 1935. L’anno successivo si trasferisce assieme a Jan in Messico, dove comincia a scrivere Sotto il vulcano. Nel 1937 Jan lo abbandona.
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Trascorre ancora un anno e si sposta nuovamente a Los Angeles, dove avviene l’incontro con l’ex attrice Margerie Bonner che in poco tempo diventerà la sua seconda moglie. Lei è la donna con cui trascorrerà il tempo più felice. I due si trasferiscono nuovamente da Los Angeles in Canada, dove rimangono per i successivi quindici anni circa, vivendo in una palafitta sul mare, con poche comodità ma in un’atmosfera di sogno.
Su questo sogno si calca più volte la mano in Sotto il vulcano, che viene scritto proprio qui per la maggior parte e che proprio qui subisce revisioni, riscritture, aggiustamenti martellanti e frequenti. Margerie lo convince a chiudere il manoscritto, a non modificarlo ulteriormente – dieci anni di lavorio sono più che sufficienti. Quando la loro casa brucia, il manoscritto sopravvive miracolosamente. È l’avviso di sfratto a far precipitare a fondo Lowry. Per la prima volta, arriva uno spostamento coatto, una rinuncia che è anche un castigo. I due si spostano, dunque, e viaggiano prima in Italia, poi in Inghilterra. Qui, dopo una lite con la moglie, Lowry ubriaco ingoia una dose massiccia di sonniferi, morendo disgraziatamente nel 1957.
Sarà Lowry uno scrittore maledetto? Certo, storcerà qualcuno il naso quando sentirà accostare questa definizione a un modernista inglese… ma d’altra parte Lowry o Dylan Thomas o magari Poe, si potranno dire meno maledetti di molti altri? Pur ammettendo la disgrazia dello scrittore, rimane che il libro è invece miracolato. Il manoscritto sopravvive a un incendio, certo, ma soprattutto sopravvive al suo autore. Non basterà quella ubriachezza quotidiana a dissolvere gradatamente il lavorio sul testo: dieci anni di riscritture nevrasteniche, correzioni morbose, rifiuti cocciuti delle case editrici, revisioni che ne vorrebbero minare e stravolgere l’ossatura. Anzi, è la stessa ubriachezza a esasperare l’ossessione per il libro, a rendere l’autore schiavo della sua storia, a confonderlo col personaggio che crea.
Gli scritti di Lowry hanno tutti una forte componente autobiografica. In Sotto il vulcano, tuttavia, quella componente si confonde e si espande in una direzione che non è più solo quella che muove dall’autore verso il protagonista, ma che si dilata fino a raggiungere anche gli altri personaggi. Ugualmente i luoghi non sono sempre una rappresentazione fedele della realtà messicana di Lowry, ma una confusione come di ubriaco li sovrappone e incastra a formare stanze terze e ambienti saturi.
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Succede insomma che il Console Firmin sia solo una delle rappresentazioni di Lowry nel testo, o uno dei principali momenti di simbiosi. L’uno e l’altro condividono, oltre che l’ossessione per l’alcol, anche quella per un libro in corso d’opera, quella per una donna, un atteggiamento refrattario nei confronti della vita pratica. Alcune tra le difficoltà di Lowry – delegava alla moglie il compito di fargli la barba e mettergli i calzini ai piedi – sono indicate nel libro come segnali d’adultità, conquiste d’autonomia.
Il secondo specchio in cui l’autore si riflette è il fratello del Console, Hugh, controcanto al Console e allo stesso Lowry. Hugh è animato da un impegno politico forte, ha preso parte alla guerra civile spagnola. Ha avuto una relazione con Yvonne, la moglie del console, che lo ha tradito anche col cineasta Lourelle. Hugh taglia barba e capelli al fratello e tenta di dargli una mano per farlo smettere col bere, si accorge del suo tremare quando ne ha bisogno, conosce il debole del Console per il mezcal.
La vicenda si svolge tutta all’interno di un unico giorno, il giorno dei morti del 1939, a Cuernavaca. La città, nel libro, viene chiamata ancora Quauhnahuac, il nome che possedeva in tempo precolombiano e che significa “il luogo vicino agli alberi”. Il primo capitolo è un’anticipazione di quanto accadrà al termine della vicenda. Dal secondo capitolo in poi la trama comincia a svolgersi in un continuo dilatarsi e contrarsi del tempo. I dodici capitoli in cui il libro si divide rappresentano le dodici ore della giornata in cui la vicenda si svolge. Ogni capitolo è focalizzato più o meno evidentemente su una vicenda particolare o su un particolare personaggio – il capitolo IX, ad esempio, è tutto per Yvonne.
Così si procede per associazioni tra accadimenti che spiegano eventi del presente sulla scorta di quello che è accaduto in passato. Ma si va avanti anche per sogni, recriminazioni, osservazioni, descrizioni densissime, prese di coscienza, ricordi. La scrittura, che spesso tocca dei livelli di lirismo insuperabile, accurata e ricca com’è, segue spesso il delirium tremens del console e ne mima i movimenti in una maniera che rende la lettura piuttosto ostica. Ma ciò che davvero incide sulla difficoltà del libro è la forte simbologia che lo domina.
Lowry è appassionato di stelle, di cabala, di lingue e di miti antichi, di religioni, di mistica. Perciò la simbologia domina fortemente tutta la vicenda e tutta la scrittura, crea richiami e trame fitte e rende possibile o per meglio dire necessaria, una lettura stratificata. Certamente a lettura stratificata risponde un procedere lento e acuto che richiede una dedizione completa al libro, esige di dedicargli un tempo particolare.
Ma c’è un simbolo che persiste e campeggia al di sopra degli altri e che crea quindi uno dei primi livelli cui badare. La frase «¿LE GUSTA ESTE JARDÍN QUE ES SUYO? ¡EVITE QUE SUS HIJOS LO DESTRUYAN!» ritorna in occorrenze diverse all’interno del racconto e pone in evidenza il giardino del Console – in cui lui nasconde bottiglie di alcolici, che secondo Yvonne è una rovina, perché il tempo e la noncuranza lo hanno devastato. Ma quel giardino che subito porta a pensare alla cacciata di Adamo dal giardino dell’Eden ha un senso che lo stesso Lowry esplicita nel racconto.
Questo perché la simbologia di cui fa uso non è un orpello né un’aggiunta, non serve a spiegare un senso secondo. Quel simbolo è lo stesso simbolo che campeggia evidentemente nella vita reale, che non è un oggetto reificato ma che unisce due aspetti fino a renderli completi, proprio secondo etimologia. Non è quindi un accorgimento letterario né un espediente, è una registrazione della simbologia del mondo, che nel libro trova modo d’esprimersi.
«A proposito, ho visto uno di quei serpentelli corallo, poco fa» esplose il Console. Il Signor Quincey tossì o sbuffò di sdegno, ma non disse nulla. «E questo mi fa pensare… Sapete, Quincey, che mi sono spesso domandato se non ci sia, in quell’antica leggenda del Giardino dell’Eden e tutto il resto, più di quanto non sembri? E se Adamo non fosse stato scacciato affatto dal Paradiso terrestre? Nel senso, voglio dire, in cui siamo soliti intenderla, questa antica leggenda…» […] «E se il suo castigo fosse consistito in realtà» incalzò il Console con calore «nel dover continuare a viverci da solo, naturalmente… soffrendo, non visto, escluso dalla tutela del Signore…»
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