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Economia

L’NBA e il razzismo, i giocatori dicono stop

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Lorenzo Ricchitelli

Nella notte italiana tra il 26 e il 27 agosto, negli Stati Uniti si è fatta la storia. Questo episodio riguarda la National Basketball Association, la più importante vetrina di basket al mondo. All’interno di questa lega non era mai avvenuta l’interruzione del regolare corso di una post-season. Questo trend si è interrotto proprio il 26 agosto, quando i Milwaukee Bucks, a pochi minuti dalla palla a due contro Orlando, hanno annunciato di non voler scendere in campo. Perché questa decisione senza precedenti? Perché ancora una volta gli Stati Uniti sono stati testimoni di un cruento episodio di violenza razziale da parte della polizia. L’NBA e il razzismo non sono mai potuti rientrare nella stessa frase. Gli atleti che vi giocano all’interno sono la fotografia di una dimensione fortemente multirazziale e variegata.

Dopo gli episodi di Breonna Taylor e soprattutto di George Floyd, l’ennesima violenza contro un ragazzo afroamericano, da parte della polizia, ha sancito il limite sopportabile dai giocatori. Bisogna creare un ampio quadro di analisi per comprendere perché NBA e razzismo debbano ancora coesistere.

Leggi anche: L’America “non respira” ancora.

NBA e razzismo: il caso di Jacob Blake e le parole dei giocatori

Un frame del cruento video che vede Jacob Blake afferrato alle spalle da un poliziotto. Foto: iltempo.it

Il caso Jacob Blake

Il motivo che ha scatenato la protesta dei giocatori NBA è occorso il 24 agosto 2020. Intorno alle 17 (ora locale), nella città di Kenosha, Wisconsin, una volante arriva a casa di Jacob Blake. La polizia è stata sollecitata per un caso di “diverbio domestico”, e trascina fuori dalla casa Jacob. Una volta vicino al suo SUV, il ragazzo entra di faccia dal lato del guidatore, ma viene afferrato da dietro dal poliziotto. Nel video amatoriale si sentono successivamente sette distinti colpi di pistola, che solo poi si scopriranno entrare tutti nella schiena di Jacob Blake. Quasi al pari di Floyd, quello che emerge dalle immagini è un altro caso di oggettiva e insensata violenza da parte della polizia.

La reazione del mondo NBA

La reazione del mondo è unanime e forte, sdegno e sofferenza toccano il cuore di tutti. In particolare, come già in passato, si sentono toccati i giocatori della lega americana di basket. In questo periodo le squadre NBA sono impegnate in quella che è stata denominata The Bubble. Una vera e propria dimensione chiusa, nella cornice di Disney World a Orlando, Florida, in cui hanno terminato la regular season e dato il via ai successivi playoff. Ciò è conseguenza della pandemia di Covid-19, che sta colpendo pesantemente soprattutto gli USA, ma questa non è stata l’unica motivazione.

Frame dell’intervista post-partita rilasciata da Chris Paul, qualche ora dopo i fatti di Kenosha. Foto: sportingnews.com

Tutto il meccanismo messosi in moto, tra presidenti, giocatori e organizzatori, si è animato grazie a un preciso intento: NBA e razzismo dovevano essere divisi. Di qui i vari slogan contro il razzismo scritti sul parquet di gioco (una scritta enorme con il famoso Black Lives Matter), diffusi per tutto l’edificio e presenti sulle maglie stesse dei cestisti. Tutto questo per mandare un messaggio tramite una delle piattaforme più potenti del mondo, l’NBA stessa. Ma il caso di Jacob ha reso tutto vano, all’apparenza. Le reazioni a caldo sono state forti e dirette. Chris Paul, playmaker degli Oklahoma City Thunder, subito dopo la partita giocata la sera stessa del 24 agosto, alla domanda riguardo il gioco stesso ha risposto per prima cosa:

Ready: «The series is tied now. What did you find at the end of this game that helped you guys pull away?»

Paul: «I don’t know. That’s all good and well. I just want to send my prayers out to Jacob Blake and their family. The things we decided to come down here to play for, and we said we’re going to speak on the social injustice and the things that continue to happen to our people. It’s not right. It’s not right».

I pensieri di Chris Paul sono nitidi. Quello che è successo ha mandato in fumo tutto quello per cui i giocatori avevano deciso di continuare a giocare, ed è più importante della stagione stessa. Alle parole del playmaker di OKC è seguita un’accorata intervista del coach dei Los Angeles Clippers, Doc Rivers:

«All you hear is Donald Trump and all of them talking about fear […] We’re the ones getting killed. We’re the ones getting shot. We’re the ones that we’re denied to live in certain communities. We’ve been hung. We’ve been shot. And all you do is keep hearing about fear».

Rivers sottolinea un concetto fortissimo: nonostante sia un nero “privilegiato”, per professione e per il suo status, parla di un “noi”, in riferimento alla comunità afroamericana. Una comunità che è l’unica a subire svariate ingiustizie e discriminazioni, mentre gli “altri”, la popolazione bianca e il presidente Trump, parlano di paura.

La decisione dei Bucks e i messaggi via social dei giocatori

Il caso Blake è avvenuto a soli cinquanta chilometri da Milwaukee, capitale del Wisconsin; e proprio la squadra di quella comunità ha deciso di dare il via alla protesta. Così gara 5 con Orlando è stata boicottata, una decisione mai vista nella lunga storia della lega. A Milwaukee hanno dato solidarietà gli stessi avversari, i Magics, poi anche le squadre delle partite successive (Clippers, Lakers, Mavericks, Blazers), sospendendo di fatto anche le gare del giorno successivo.

 

Il tweet di Lebron pochi minuti dopo l’annuncio dell’NBA della sospensione. Foto: twitter.com

Pochi minuti dopo l’annuncio ufficiale, sono arrivate le prime dichiarazioni dei giocatori. Come al solito, uno dei primi è stato quello che, per il suo impegno costante nel sociale, ha conquistato la nomina di More than an athlete, Lebron James. Usando pochi giri di parole ha sottolineato come il gioco in questo momento venga in secondo piano, perché “pretendono un cambiamento“.

Tweet di DeMar DeRozan, guardia degli Spurs, riguardo la decisione di sospendere le partite. Foto: twitter.com

Il concetto della priorità della questione del razzismo viene esplicitamente dichiarato dalla guardia dei San Antonio Spurs, DeMar DeRozan, che afferma che la questione è più grande del basket.

Post su instagram di Karl Anthony Towns, riguardo al caso Blake. Foto: instagram.com

Un’altra opinione forte viene da un post su Instagram fatto dal centro dei Minnesota Timberwolves, Karl Anthony Towns. Usando un gioco di parole, invita le persone a “sparare” canestri, non alle persone, in chiaro riferimento al caso di Jacob Blake.

La decisione di continuare, il ruolo di Michael Jordan e le parole di Trump

Il giorno successivo al boicottaggio è stata convocata immediatamente una conferenza tra giocatori, lega e presidenti delle franchigie, per capire il da farsi. Quello che è emerso è la chiara insofferenza per questa assurda situazione da parte dei giocatori, tanto che Lakers e Clippers hanno proposto di chiudere seduta stante la stagione. Dopo ore di colloquio e una reale possibilità che l’NBA si fermasse definitivamente, al contrario la decisione uscita dalla conferenza è quella di continuare. I giocatori hanno fatto tanto per arrivare a questo punto, sia sportivamente che socialmente, e vogliono continuare a usare i playoff come mezzo di comunicazione contro il razzismo.

È trapelato nelle ultime ore il ruolo chiave di Michael Jordan. L’ex stella dei Chicago Bulls, attuale presidente dei Charlotte Hornets, ha fatto da mediatore tra franchigie e giocatori. Essendo stato dall’altro lato della barricata, Michael ha potuto appieno ascoltare le ragioni degli atleti e dare il suo totale supporto. Avendo il rispetto di tutti, ha parlato sia con Chris Paul, presidente dell’associazione giocatori, che con Russell Westbrook, guardia degli Houston Rockets e figura importante tra i giocatori. MJ, grazie alla sua figura e al suo peso, è riuscito a convincere gli atleti a ripartire, avendo dato loro il massimo appoggio sulle decisioni future.

Leggi anche: Michael Jordan, il businessman.

Frame del video delle dichiarazioni di stamattina da parte di Donald Trump. Foto: sport.sky.it/nba

A stonare con tutto questa atmosfera di collaborazione e di comuni intenti sono arrivate le parole di Donald Trump. In un’intervista, rilasciata alla Casa Bianca, ha mostrato tutta la sua indifferenza verso questo gesto dei giocatori NBA. Il Presidente americano ha sottolineato i «bassi shares» che sta avendo l’NBA e come la lega si stia trasformando in una «organizzazione politica». Chiaramente Trump ha voluto sminuire la portata del gesto dei giocatori, difendendo la sua politica di austerity nei confronti dell’immigrazione e delle “altre” comunità presenti sul territorio americano.

Quello che è successo ha in realtà una risonanza spaventosa, data la sua unicità storica, ma soprattutto data la ferrea volontà della NBA, compatta come non mai, di dare una svolta decisa. La speranza dell’America, e non solo, risiede anche nelle prossime elezioni di novembre, dove Trump dovrà difendere la sua poltrona contro il democratico Joe Biden. Forse anche da lì si potrà in futuro capire se il razzismo potrà veramente essere estirpato dallo Stato più influente del globo.

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Lorenzo Ricchitelli

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