L’alleanza con il Moviemento Cinque Stelle è costata molto al PD in termini di identità. Ma in verità, già da un po’ le cose giravano in un altro senso – da quando Renzi non pescava più i consensi di fabbriche e operai, ormai appannaggio della Lega. Ora però, a un anno dalla formazione del governo che doveva arginare Salvini, sembra che il PD più che contenere la valanga populista ne sia stato sommerso. L’abbraccio con i Cinque Stelle in un governo senz’anima ha ricevuto piogge di critiche, e ha mostrato da subito molte discontinuità: prima la prescrizione, e poi cosa farne del reddito di cittadinanza, e poi l’incertezza sui migranti, e ora il Sì al taglio dei parlamentari.
Il governo traballa, sì, ma alla fine resta sempre in piedi. E sul finire di un’estate ancora dominata dal Covid-19 e dalle sue conseguenze, meglio così. Ma in questo scenario il PD ha le sembianze di qualcosa di familiare, eppure all’improvviso straniante. Come se stessimo guardando qualcosa con gli occhi socchiusi, il partito di Zingaretti oggi è difficile da mettere a fuoco. Ha i contorni sfumati, e i colori sbiaditi di chi per uniformarsi con l’alleato giallo ogni volta lava via un po’ di sé stesso.
Il referendum del 20 e 21 settembre è per il PD l’ultimo esempio, in ordine cronologico, di posizione poco chiara e convincente, se non incoerente.
Il Movimento 5 Stelle è il partito che ha portato avanti e sostenuto la riforma che prevede di ridurre i seggi alla Camera da 630 a 400 e quelli al Senato da 315 a 200. Il Partito Democratico si era inizialmente schierato per il No, ma con il tempo le cose si sono complicate e il “taglio delle poltrone” si è fatto condizione necessaria per formare il governo. Sì, quindi, ma a delle condizioni. Zingaretti aveva vincolato il suo appoggio all’approvazione di misure di riequilibrio senza le quali la riforma avrebbe conservato quella che per il PD era la sua natura qualunquista e populista.
Nessuno di questi contrappesi ha visto la luce. Eppure, oggi la linea ufficiale resta per il sì. Ma il referendum rappresenta, come nelle migliori tradizioni Dem, elemento di divisione. E metà partito si rende conto, o continua a sostenere, che la riforma potrebbe essere un pericolo democratico. A Zingaretti basterebbe almeno un voto sul testo di legge elettorale proporzionale entro il 20 settembre, ma posizioni più decise lamentano che non essendo cambiato nulla da quando si sosteneva il no – se non il fatto che è al governo con il M5S – il PD votando sì fa una scelta incoerente.
«Ci fu garantito che il taglio sarebbe stato preceduto da una nuova legge elettorale proporzionale e accompagnato da modifiche costituzionali» scrive su Facebook l’ex presidente del PD Matteo Orfini. «A poche settimane dal referendum è ovvio che non avremo né la nuova legge elettorale, né i correttivi costituzionali. […] E ora come se niente fosse votiamo lo stesso sì?»
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Il referendum è solo un esempio. C’è confusione, e in questa ambiguità di valori, identità e priorità il PD rischia di perdersi. Zingaretti non può più evitare un chiarimento sul senso e le conseguenze dell’alleanza con il Movimento. Come può il governo tirare avanti se un’alleanza alle Regionali ad alcuni fa accapponare la pelle?
Nella scorsa legislatura era facile fare opposizione sul tema dei migranti, ma oggi i decreti sicurezza non sono ancora stati aboliti. Lo ius soli non è stato approvato. E ad aprile è stato firmato un decreto per chiudere i porti. Causa coronavirus, ma dodici mesi fa il PD avrebbe accompagnato lo stesso provvedimento, alle stesse condizioni, con un coro di indignazione. Reddito di cittadinanza? Da modificare. Quando? Con l’aumento dei contagi sappiamo già che il governo dovrà occuparsi prima di altro. Ma quando il post-coronavirus si potrà intravedere, chi si riconoscerà nelle scelte prese e non prese?
Da un lato c’è il nodo dei rapporti con i Cinque Stelle. Ma dall’altro, che ne resta del PD come attore singolo, non come alleato di governo? O meglio, cosa ne resta della somma dei suoi consensi? Il partito di Zingaretti tiene stretta Bologna, ma parlare di sconfitta della Lega è lecito fino a un certo punto, se continua a governare nelle altre grandi regioni del Nord. La “questione settentrionale” è la fotografia dei suoi limiti.
Oggi il PD governa un Paese in cui non ha voce in capitolo dalla Liguria al Veneto. E se prima riusciva a tenere unite le due anime del Paese – classe dirigente e classe operaia – ora, seppure le distinzioni di classe siano un concetto per lo più superato, le sue politiche non sembrano piacere poi tanto agli elettori meno forti dal punto di vista sociale ed economico. Se il centrosinistra negli ultimi anni è diventato sempre più il punto di riferimento dei ceti più istruiti, meno bisognosi, con un reddito fisso assicurato, è altrettanto sempre più privato del suo naturale referente elettorale.
Ora, accodandosi al Movimento, il PD non fa che perdere anche l’altra anima del Paese, che dei grillini non ne vuole sentire parlare. Dunque questo PD va avanti, ma senza un’anima, nella vaghezza di una scelta di campo che non intende fare. «Non è tempo di fare polemiche» scrive su Twitter Orfini «ma a un certo punto se ne potrà discutere?»
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