Philippe Daverio ha lasciato questo mondo stanotte, all’Istituto dei Tumori di Milano, a soli 71 anni. Con lui se ne va non solo una delle figure più rilevanti della storia dell’arte italiana, ma soprattutto un divulgatore tout court, capace di raccontare l’arte in televisione con uno stile irreplicabile. Questo 2020 non smette di mietere vittime illustri, anche nel panorama della storia dell’arte: dopo Germano Celant e Maurizio Calvesi, se ne va una vera icona delle televisione italiana.
Philippe Daverio, metà alsaziano e metà italiano, ha da sempre respirato l’internazionalità. Ma ha saputo coniugarla con il senso più profondo del made in Italy, che non è solo mozzarella e pizza ma abbraccia il nostro patrimonio artistico e culturale, da lui sempre difeso. Anche a costo di qualche cambio di casacca politico che gli ha attirato malumori. Prima assessore alla Cultura del comune di Milano dal 1993 al 1996, sotto la giunta leghista di Formentini. Esperienza “giustificata”, come nel suo stile ironico e piacevolmente snob, con la frase «Era la Lega ad aver sposato le idee daveriane». Poi nuovamente candidato a Milano come consigliere provinciale con Filippo Penati, di centrosinistra. Infine il sostegno a +Europa, con l’obiettivo di rendere Venezia la terza Capitale europea.
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Philippe Daverio aveva la capacità di spiegare argomenti difficili con un piglio e un linguaggio fortemente personali. Chi altri avrebbe potuto parlare della pittura come di «Un virus latino diffuso in tutto il mondo dagli antichi romani»? Ma allo stesso tempo era capace di arrivare a tutti con un’immediatezza disarmante. Proprio perché gli italiani, tormentati fin dall’infanzia con indigestioni di nozioni di storia dell’arte, storia antica, lingue morte, caricati del peso di un’eredità impossibile da gestire, vorrebbero essere sedotti, incantati dall’arte.
E Philippe Daverio ci riusciva: a cominciare dal suo modo di presentarsi sul piccolo schermo, eredità forse di quell’educazione ottocentesca ricevuta in collegio. Papillon d’ordinanza, gilet, occhiali tondi da dandy. Eloquio garbato, voce inconfondibile e una narrazione che destabilizza i critici dell’arte più tradizionalisti ma incanta e soggioga le menti più giovani e meno legate a un’accademismo antiquato. Come d’altronde era lui: studente alla Bocconi mai laureato, rivendicava questa scelta senza nascondersi e senza complessi di inferiorità. «In quegli anni si andava all’università per studiare, non per laurearsi». I traguardi raggiunti in nome della sete di conoscenza e della vocazione a proteggere e valorizzare il patrimonio artistico italiano distinguono senz’altro Philippe Daverio dagli eterni fuorisede o furbetti del pezzo di carta.
Apre la sua prima galleria d’arte del 1975, in via Monte Napoleone a Milano, in cui esponeva soprattutto esponenti dell’Avanguardia novecentesca. Nel 1986 ne apre una a New York, sempre di arte del Novecento, e nel 1989 un’altra sempre a Milano. Ha insegnato allo IULM, al Politecnico di Milano e all’Università degli studi di Palermo, città a cui era molto legato: nel 2010 è consulente, per volontà del sindaco, per la festa della patrona Santa Rosalia. Fondatore del movimento d’opinione, salvaguardia e sensibilizzazione del patrimonio artistico italiano Save Italy, volutamente, fin dal nome, di respiro internazionale. Il patrimonio artistico italiano, per sua stessa ammissione, non appartiene solo al popolo italiano ma a tutta l’umanità: da qui la necessità di sensibilizzare a prescindere dalla provenienza.
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Un programma innovativo, Passepartout, a cominciare dallo stile adottato da Daverio per condurlo: telecamera fissa su di lui, che guarda lo spettatore dritto negli occhi. Le sue definizioni insieme lapidarie e poetiche dei protagonisti dell’arte italiana e internazionale. «Hieronymus Bosch non è un direttore di circo ma un raffinato intellettuale che tenta di riassumere tutte le fiabe della fine del millennio, quando non fa più paura ma genera nuove fantasie». O quella, tragicamente divertente, scaturita dalla sua mente in occasione della dipartita del programma. Cancellato senza il clamore di editti bulgari e cacciate plateali di conduttori scomodi, ma mancato in silenzio, senza che l’opinione pubblica si scomodasse a chiederne il ripristino.
È improvvisamente mancato Passepartout, nel pieno della sua salute. Lo compiangono la redazione tutta e centinaia di migliaia di affezionati suoi seguaci. La causa del decesso è da ascriversi probabilmente a una pallottola vagante sparata durante il riordino amministrativo recente della Rai che si è trovata costretta a passare dall’ordinamento privato della sua gestione a quello pubblico più consono alle risorse erariali che la alimentano.
Semmai trasformandoli in un linguaggio che, pur non rinunciando alla complessità e alla magnificenza, sapesse parlare a tutti, rendendo anche lo spettatore medio un appassionato d’arte. Forse perché, prima di essere un erudito, era lui stesso un appassionato. La rinuncia alla laurea gli ha forse tolto il “peso” di essere un accademico tradizionale, trasformandolo in un amatore della bellezza. Una figura che, proprio per questo, centinaia di migliaia di italiani facevano entrare nelle loro case una volta a settimana, mentre sparecchiavano. Un personaggio da esibire con fierezza sui social in un selfie o una foto al libro autografato. La capacità di coniugare antico e moderno, alto e basso, papillon, tabarro e De Chirico con televisione, selfie e mondanità lo ha reso amatissimo dai giovani. Forse il traguardo di cui andare più fiero.
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