Il mondo non cambia, si trasforma. Il mutare della mentalità umana ondeggia su un parallelismo tra idee e tempo, elementi che si influenzano a vicenda in maniera incessante. Se il mondo cambia, l’uomo si trasforma. O se l’uomo cambia allora è il mondo a trasformarsi. Ma questo processo avviene inconsciamente, seguendo un procedimento non ancora descritto in nessun libro, né delineato in alcun canto.
E l’impatto che più di tutti ha trasformato oltremisura il mondo è stato l’avvento di una tecnologia sempre più avanzata. Pensare che nell’arco di un secolo si potesse passare dalla creazione del telefono a uno senza fili, per poi arrivare allo smartphone, rende l’idea dell’infinita capacità evolutiva umana.
Ciò che però l’uomo non è stato in grado di elevare è stata la capacità di pensiero in relazione alle altre persone. Il problema dell’alterità. Che da sempre affligge l’animo umano, ma che mai è stato risolto fino in fondo. Per questo molti personaggi influenti del mondo, quali leader, attori, sportivi e molti altri cercano di portare avanti una campagna che possa distruggere i preconcetti radicati nell’animo umano.
Furono le menti brillanti di Bill Bowerman e Phil Knight a dare vita all’iconico baffo, figlio della passione di un mezzofondista. E parafrasando il canto finale del paradiso dantesco, è decisamente «la passione move il sole e l’altre stelle».
Da un primo tentativo che comprendeva la creazione di scarpe per l’atletica, Knight ha unito la sua voglia di dar vita a qualcosa di nuovo alla conoscenza dell’atletica del suo allenatore Bowerman. BRS (Blu Ribbon Sports) fu il nome dato alla neonata azienda che importò dal Giappone le famose Tiger, divenute poi famose sotto l’egida del marchio Asics.
Nonostante la loro lungimiranza, neanche i due soci pensavano che quelle scarpe, tanto vendute in Asia, potessero avere un successo anche nel Nord America tale da vendere nell’arco di un anno, tra 1964 e 1965, più di 20.000 paia. Questo portò a un rapido inserimento a livello nazionale negli Stati Uniti, tanto che in più città aprirono vari negozi BRS.
Ma con la terra del sol levante che decise di tenere per sé quell’ormai redditizio brand e con la BRS che aveva lanciato una linea propria, al duo allenatore-mezzofondista non rimase altro che continuare a dare forma a quelle idee balenate anni prima. Una forma di baffo su un paio di calzature che di lì in poi resero grande il mondo.
La parola nike deriva dal greco antico Nίκη (nike) e significa vittoria. Anzi, più che darle significato la rappresenta all’interno di un corpo, raffigurato nella Nike di Samotracia, conosciuta anche come Vittoria alata.
La statua fu l’ispirazione del nuovo nome e del logo, il famoso swoosh che ricorda proprio la forma curva della scultura. Partendo da un’idea semplice, i creativi della nike incentrarono il loro credo su un semplice slogan (a partire dal 1988) che racchiudeva tutto: Just do it! (Fallo e basta!).
Tre parole che descrivevano il propellente con il quale Knights e Bowerman avevano alimentato dagli albori la loro piccola ma già matura figlia della passione.
Era la novità che teneva conto degli atleti nati per vincere. Era il nome nuovo che richiamava la leggenda e la raffigurazione di un mito. Era la nike che si prendeva pian piano il mercato statunitense facendo urlare il suo nome a chiunque volesse avere le ali della Vittoria ai piedi.
Era il 1971 ed era nata la casa sportiva più importante del secolo.
La storia del bad boy John McEnroe non va raccontata a chi di tennis o di sport in generale si ciba. Ma per chi dovesse esserne digiuno sappia semplicemente che in uno sport come il tennis, dove all’epoca il silenzio e l’educazione regnavano sovrane, il ragazzo di New York era l’eccezione.
Fu lui il primo campione marchiato Nike, conosciuto per il suo talento e soprattutto per il temperamento particolare. Ma fu questa la novità e la lungimiranza della marca dell’Oregon: credere in coloro che sponsorizza. Al di là del carattere controverso o delle voci che si creano intorno a quel personaggio; la naiki (pron. americana) supportò da sempre i propri campioni.
Carl Lewis e Joan Benoit portarono in alto l’innovazione tecnica che la marca statunitense diede all’atletica leggera (il sistema di ammortizzazione nike-air) facendo sì che scalasse i vertici mondiali. E se con loro furono solo le scarpe a dare vita al mito, con l’NBA la Nike entrò anche nel mondo dell’abbigliamento.
Fu il contratto a dir poco folle con MJ che illuminò uno swoosh ormai gigante e presente in moltissime case americane e non. Soprattutto di Chicago. E di lì in poi fu storia a sé: un’espansione continua che prese sotto la propria ala (è davvero il caso di dirlo) fenomeni come Sampras, Agassi, Ronaldo, Federer e così via.
Una marca creata da un appassionato per vestire campioni. Decisamente intrepida come idea. Follemente romantico il risultato.
Oltre a mettere un baffo su volti noti o a far diventare noti volti senza baffi, la Nike ha intrapreso da svariati anni una meravigliosa avventura nel mondo degli spot. O per dirlo all’americana i commercial.
Il primo spot per la televisione fu creato nel 1982 e ovviamente verteva su calzature. Molto semplice nelle immagini proiettate ma decisamente ad effetto con la cronostoria del rapporto tra uomo e mondo. Riuscire a stare al passo con l’evoluzione.
Con la miglioria delle teconologie di effetti speciali, la Nike ha messo sullo schermo nel 1988 il suo Just do it! accostandolo all’ottantenne Walt Stack. A dimostrazione che neanche l’età può fermare l’indole sportiva e il carattere indomito dell’uomo.
E via via negli anni sono stati tantissimi i video creati, per qualsiasi sport. Difficile non emozionarsi davanti a ognuno di questi, ma ancora di più non riuscire a sentirsi parte del tutto con gli spot socialmente interessati del gigante americano.
Come spesso capita, lo sport è diventato portatore di messaggi contro razzismo e prese di posizione basate in particolar modo su preconcetti figli di secoli bui e passati da un pezzo. E se dovesse essere elogiato un brand per ciò che ha dimostrato, quello è sicuramente la Nike. Che ha dato parola a problemi ancora oggi attuali e che si cerca di combattere come meglio si può.
Con il caso Kaepernick del 2016 la Nike si è apertamente schierata contro l’america razzista, bigotta e retrograda che aleggia nelle strade. A nulla sono serviti Martin Luther King o la marcia da Selma a Montgomery. E ancor meno la storia è stata magistra vitae per tutti coloro che ancora credono in una disuguaglianza di razza.
Ex giocatore di football americano e ormai attivista per i diritti umani, Colin Kaepernick ha dimostrato come lo sport sia fondamentale per dare voce a chi non ne ha. A quei milioni di persone che devono subire ingiustizie legate al colore della pelle. Nonostante abbia dovuto dire addio alla sua carriera.
E la Nike ha accostato il suo marchio al riccioluto ex 49ers. Al suo pensiero e alla sua forza di volontà. In un video promozionale che sponsorizza non tanto la marca americana, quanto la distanza dall’ingiustizia galoppante. Riassumibile in una frase: believe in something, even if it means sacrificing everything.
Un errore che sovente si commette è aspettarsi un cambiamento senza far nulla per permettere che avvenga. In questo periodo, più che in ogni altro nella storia recente dei diritti umani, lo sport sta contribuendo quanto più possibile a far si che un cambio di rotta ci sia davvero. Dando vita a tante “prime volte” che comprendono il rifiuto di continuare a voltarsi nel senso opposto al problema.
E ancora una volta, a distanza di tre anni da quel volto di Kaepernick che spiega quanto sia duro rinunciare a ciò che si ama, la Nike ha dato vita poche settimane fa al suo ultimo capolavoro. Un meraviglioso montaggio di immagini dove con maestria si uniscono colori, sport, generi, urla, pianti, esultanze.
Provando a ricordare al mondo intero che la vittoria non riguarda solo il conseguimento di un risultato sportivo, ma anche (e soprattutto) la creazione di una mentalità lungimirante e cosmopolita. Che non si può fermare.
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