L’ospedale psichiatrico di Colorno, in provincia di Parma, è nato nel 1873 ed è stato al centro dei cambiamenti che dagli anni Sessanta hanno segnato la fine dei manicomi, avvenuta in modo definitivo con la legge 180 del 1978.
La realtà parmense è stata teatro di importanti riforme promosse da Mario Tommasini, amministratore provinciale eletto nel 1965 nelle file del Partito Comunista Italiano, e da Franco Basaglia, direttore dell’ospedale psichiatrico dal settembre 1970 al marzo 1971.
L’arrivo di Tommasini rappresentò uno spartiacque nella storia del manicomio. L’amministratore comunista fece infatti della liberazione dei pazienti una missione umana e politica: migliorò le condizioni dell’ospedale e favorì l’uscita degli ammalati e il loro inserimento in società per mezzo del lavoro. Rivoluzionario fu anche l’uso delle assemblee per discutere con infermieri e pazienti delle problematiche presenti e delle loro possibili soluzioni.
Tra febbraio e marzo del 1969, il manicomio venne occupato dal movimento studentesco, sempre più coinvolto nella lotta per il superamento degli ospedali psichiatrici. L’arrivo di Basaglia nel 1970, favorito dallo stesso Tommasini, vide per la prima volta una comunione di intenti tra la sfera politica e quella medica. Dopo l’esperienza a Parma, Basaglia si trasferì a Trieste, dove chiuse per la prima volta un manicomio.
In un’intervista dichiarò:
La cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, venti anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma ad ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere alla persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale.
Oggi theWise Magazine incontra Pino Zerbini, classe 1935, che dal 1957 al 1978 è stato infermiere all’ospedale psichiatrico di Colorno.
Buongiorno e grazie di essere qui. Quando e come ha deciso di lavorare per l’ospedale psichiatrico?
«Io sono entrato in manicomio nel 1957, avevo ventidue anni. Proprio come oggi, era in corso un’epidemia che aveva decimato il personale sanitario. Era l’influenza asiatica, pensa che l’ho presa ben due volte. Io e altri miei colleghi siamo stati scelti per andare a lavorare in ospedale, nonostante non avessimo ancora completato il corso triennale di formazione per infermieri, perché appunto c’era mancanza di personale».
Cosa ha provato quando ha iniziato a lavorare nel manicomio?
«Dopo due mesi di lavoro, io non ci volevo più andare. Era una roba… pesante. Da subito non sono stato bene, però dovevo lavorare. Tutti i miei parenti erano morti, e mia mamma era senza pensione.
Sono rimasto due giorni a casa, senza certificato medico, rischiando il licenziamento. Avevo voglia di lavorare, ero giovane, sicuramente qualcos’altro avrei trovato. Pensandoci bene però, sono rimasto lì, fino alla chiusura del manicomio, avvenuta nel 1978. A posteriori posso definire il manicomio come un luogo di sofferenza, un luogo morboso e fittizio».
Quale era il suo rapporto con i pazienti? Quali compiti svolgeva?
«Noi infermieri eravamo di sorveglianza a un ventina di pazienti, e vi erano quattro medici per quasi milleduecento pazienti. C’erano vari reparti, in cui uomini e donne erano divisi. Io ho lavorato in osservazione, nel reparto agitati e nel reparto di alta sorveglianza.
Facevamo iniezioni, misuravamo la temperatura o la pressione, ma il nostro compito principale era contenere i pazienti nei momenti di crisi. Ho assistito anche a sedute di elettroshock. Noi dovevamo immobilizzare il paziente, mentre il medico applicava il tampone sulle tempie e dava la scossa, senza anestesia. Una scena raccapricciante. Solo negli anni Settanta sono arrivati i medicinali.
Per me i pazienti erano persone, proprio come noi altri, non dei numeri. Ricordo che una volta ho infranto anche le regole. Ero molto legato al maestro R., uomo internato di grande spessore artistico e culturale, che purtroppo soffriva di esaurimento nervoso e sbalzi di umore. Era morto suo papà, e io volevo portarlo assolutamente al funerale, anche se era vietato dalle norme vigenti. Chiesi ai medici e al direttore, che erano contrari. Allora mi arrabbiai, e dissi: ‘Ma se fosse vostro padre, e voi foste internati?’. Non ricevetti risposta, e decisi di portare R. a funerale. Andò tutto bene, e al mio ritorno i miei superiori, pur sapendo del mio strappo alle regole, fecero finta di niente e non fecero rapporto».
Con i moti del 1968, si parlava dell’abolizione degli ospedali psichiatrici, per arrivare alla chiusura di queste strutture con la legge 180/78, detta anche Legge Basaglia. Come avete reagito?
«In un primo momento, lavoravamo ventiquattro ore, da mezzogiorno fino al mezzogiorno successivo. Era dura, avevamo solo la pausa per dormire dall’una alle sei, e ogni diciotto giorni avevamo tre giorni di riposo. Mancava l’organizzazione, non c’erano riunioni, e la nostra opinione non contava. Tutto questo è cambiato dal 1965, quando è arrivato come assessore Mario Tommasini, che ha introdotto le otto ore di lavoro e teneva particolarmente alle riunioni del personale. Tommasini e il dottor Basaglia volevano liberare il manicomio. Di persone così dovrebbero nascerne una o due all’anno.
Quando è arrivata la notizia della chiusura degli ospedali, tutti erano contenti. Personale e pazienti. Le resistenze erano poche. Lo svuotamento totale però è avvenuto nel giro di una decina di anni. Io sono stato trasferito a Parma, dove erano nati servizi territoriali per la cura della malattia mentale. Sono rimasto altri cinque anni, ma erano luoghi ben diversi dai manicomi».
C’è un aneddoto che le è rimasto particolarmente impresso e che vuole raccontare?
«Ricordo un aneddoto molto triste della mia esperienza nell’ospedale psichiatrico. G. era un ragazzo di ventidue anni, entrato proprio quando sono entrato io. Eravamo coetanei. Lui aveva costantemente il pensiero di uccidersi, e io lo avevo in sorveglianza. Si è tagliato le vene una decina di volte, ha mangiato degli stracci, delle monete, addirittura una volta si è pugnalato con una biro al cuore. Non è mai riuscito a uccidersi. Roba dell’altro mondo, incredibile da raccontare e da credere. G. è rimasto in manicomio per vent’anni.
Finito quel calvario, sono venuti a trovarlo i suoi genitori, dagli Stati Uniti. Non erano mai venuti a trovarlo, ma ora lo volevano a casa. Dopo tante riunioni, abbiamo deciso di affidarlo a loro, con alcune visite domiciliari, per controllare la situazione. Dopo qualche tempo, c’è giunta la notizia che G. si era sparato con un fucile da caccia.
Ho ringraziato il cielo, ci era riuscito, liberandosi da tutta quella sofferenza.
Ricordo però anche aneddoti più simpatici, se così si possono definire. Prima ho parlato di R., il maestro di scuola elementare. Prima di morire, aveva ereditato un’ingente somma di denaro, che aveva investito comprando dell’oro. Lo avevamo nascosto in manicomio, solamente io e lui sapevamo dove. Eravamo molto legati.
Dopo la sua morte, abbiamo aperto il luogo del nascondiglio, ma mancava un lingotto d’oro. Lo abbiamo cercato ovunque. Abbiamo scoperto che R. lo aveva spedito a Roma in via Botteghe Scure, come regalo per Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano. Voleva che l’onorevole lo usasse come fermacarte per la sua scrivania».
Alla luce di tutto ciò che accadeva all’interno dei manicomi, dove sarebbe opportuno migliorare oggi rispetto al tema della diversità, della malattia mentale e dell’inclusione?
«Penso che ci voglia personale qualificato e investimenti da parte delle istituzioni. Penso che sia anche importantissima l’assistenza domiciliare. L’ospedale deve essere l’ultima spiaggia, laddove l’assistenza in casa del malato non sia possibile.
Quando si lavora con i pazienti, bisogna sempre avere rispetto, cordialità e stima reciproca, senza mai dimenticarsi che siamo tutti esseri umani».
Si ringrazia Paola Panciroli per la nota introduttiva, per le fotografie utilizzate in questo articolo e per averci fatto conoscere Pino.