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Spillover: perché l’uomo è un bruco

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Giada Tonetto

«Ed ecco, mi apparve un cavallo verde. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno».

Nel 2012 David Quammen decise di aprire così, con una citazione dal libro dell’Apocalisse (6,8), il suo Spillover. Animal Infections and the Next Human Pandemic. Il saggio si presentava come un diario di viaggio delle principali malattie infettive di origine animale, quelle finite sotto l’occhio dei media per la loro pericolosità e per aver scatenato epidemie più o meno importanti. Si parte dal virus Hendra, si passa per Ebola, si conclude in grande stile con HIV. Ma ciò che questo libro ha da dire al pubblico digiuno di microbiologia va ben oltre i sottogruppi di un patogeno.

Cos’è uno spillover?

In ecologia ed epidemiologia, lo spillover è «il momento in cui un patogeno passa da una specie ospite a un’altra».

È l’evento che porta HIV dal sangue di uno scimpanzé a quello di un ipotetico cacciatore ferito. Il meccanismo è strettamente legato al concetto di zoonosi, «ogni infezione animale trasmissibile agli esseri umani». Sono zoonosi l’AIDS, le varie versioni dell’influenza, la malaria, la febbre gialla. Non lo è ad esempio il vaiolo, che guarda caso rientra tra le malattie debellate nel secolo scorso: se il patogeno resta nel recinto di una sola specie, in questo caso l’essere umano, è molto più semplice stanarlo ed eliminarlo.

Proprio in questo senso è importante riconoscere la natura di una malattia emergente: studiare da dove viene, che specie la ospitava, come è avvenuto lo spillover, permette agli scienziati di comprenderne l’origine e il comportamento.

In Bangladesh, solo al quinto focolaio in quattro anni di virus Nipah si risolse il mistero del contagio, altrimenti inspiegabile: la bevanda più amata della zona era il succo di palma da dattero. Veniva raccolto di notte, lasciando colare la linfa in appositi secchi, e nei secchi in questione si fermavano a bere anche le volpi volanti, a caccia di zuccheri. Proprio le volpi volanti, grandi pipistrelli amanti degli alberi e non delle cave, furono scoperti essere gli ospiti serbatoio [organismo vivente che porta con sé il patogeno, al quale dà asilo senza riceverne danno o quasi, N.d.R.] di Nipah. I locali cominciarono quindi a usare reti protettive per i secchi e a fare attenzione alle impurità della linfa, placando in parte l’epidemia.

Pipistrelli in volo. Foto: publicdomainpictures.net

Leggi anche: Le dieci “migliori” fake news sul coronavirus

Ecologia ed evoluzione

Quammen dà molto spazio al concetto di interconnessione, e alle due dimensioni distinte ma correlate dello spillover: l’aspetto ecologico, ciò che avviene tra gli uomini e gli altri organismi, e l’aspetto evolutivo, i fatti interni alla popolazione di un qualche organismo.

L’uomo è un animale invadente e rumoroso, presente quasi ovunque, e che ha turbato qualunque habitat abbia colonizzato. Questo comportamento ha dato infinite occasioni di contatto ai virus, che vengono generalmente agevolati da un aumento delle casuali possibilità di successo. A maggior ragione se si lega quest’aspetto alla questione evolutiva, perché una delle strategie di sopravvivenza dei virus a RNA (tra i più noti e diffusi) c’è la mutazione veloce e continua. Vi sono costretti per le piccole dimensioni del loro genoma, che comporta replicazione con molti errori e nessuna correzione. Molte versioni mutate scompaiono, alcune sopravvivono e hanno alte capacità di adattamento, e su un grande numero di tentativi lo spiraglio di luce appare quasi sempre.

Il virus dell’influenza muta continuamente e richiede un nuovo vaccino ogni anno: per questo i virologi lo seguono attentamente, sperando con la prevenzione di arginare un eventuale Next Big One, la prossima grande pandemia, lo spettro di influenza spagnola e AIDS. Ad oggi sembrano esserci riusciti, in parte. Nel 1997 Donald S. Burke, dell’università di Pittsburgh, enunciò i criteri che rendevano alcuni virus probabili candidati per una pandemia: ne risultò una inquietante predizione su SARS e COVID-19.

The Next Big One

Primo: virus che avessero responsabilità per precedenti pandemie umane. Ai tempi, il dito era puntato sui retrovirus (HIV).

Secondo: provata capacità di causare serie epidemie in popolazioni animali non umane. Tra gli altri, si parla di paramyxovirus (Hendra e Nipah) e coronavirus.

Terzo: intrinseca capacità evolutiva, ossia la facilità di mutare e ricombinarsi, il concetto citato sopra. Più mutazioni significano più potenziale di attecchire nella popolazione umana.

Burke, riferendosi in particolare ai coronavirus, parlò di «serie minacce alla salute pubblica. […] virus con alta capacità evolutiva e provata abilità di causar epidemie nelle popolazioni animali». Stiamo vivendo un Next Big One, è evidente, ma la consapevolezza dell’azione del singolo è stata fondamentale per restare a galla. I modelli matematici delle malattie infettive, quelli da cui proviene il famoso R0,tengono enormemente in considerazione la variabilità del comportamento umano. Già sulla carta è evidente come mascherina, disinfettante, distanziamento sociale influiscano molto sul tasso di trasmissione. In ecologia matematica, la varietà dei comportamenti umani è eterogeneità. È questo fattore che permette di rispondere alla domanda «Moriremo tutti?».

Il quadro generale non è certo a nostro favore. Le pandemie sono conseguenze di nostre azioni come genere umano, non accidenti capitati tra capo e collo dell’umanità, e Quammen tiene molto a ribadirlo.

L’evidenza dei casi patologici raccolti nel saggio è che lo spillover avviene in seguito a un turbamento, la rottura dell’equilibrio instaurato tra il parassita e la sua specie ospite. L’uomo vive in città sovraffollate ricavate dal consumo di spazio naturale, ha violato le ultime grandi foreste, si sfama tramite allevamenti intensivi che nutre di antibiotici, spesso si cura poco delle condizioni dei suoi animali da laboratorio, turba il clima globale spostando le latitudini degli insetti ematofagi. Per citare l’autore, i virus «ce li andiamo a cercare».

Foto: Wikimedia Commons

Leggi anche: Il costo sociale dell’epidemia di coronavirus.

L’uomo e il bruco

In conclusione, prima o poi accadrà qualcosa che arresterà il nostro sviluppo incontrastato. Quammen chiude parlando di outbreak (esplosione), in ecologia ogni forte e improvviso aumento di popolazione in una specie.

Gli scienziati che osservavano l’andamento ciclico delle popolazioni di bruchi tenda (Malacosoma disstria) e del bombice dispari (Lymantria dispar) giunsero a concludere che essi venivano periodicamente decimati dai nucleopoliedrovirus (NPV), che in un meccanismo arguto e diabolico sfruttavano la crescente numerosità degli insetti per propagarsi e consumarne la popolazione nel giro di due/tre anni.

Con Greg Dwyer, specialista di ecologia matematica dell’Università di Chicago, Quammen tenta di paragonare la crescita dei bruchi tenda a quella dell’essere umano. In proporzione, anche la nostra è una crescita esplosiva: al 2012 si parlava di 70 milioni di persone in più ogni anno.

L’esperto deve rispondere a una semplice domanda: siamo bruchi? Risponderà parlando dell’intelligenza umana di cui sopra: forse, a differenza dei bruchi, sapremo cosa correggere, cosa cambiare, per non venire consumati dal nostro personale NPV. O forse no. In fondo, «tutto dipende…».

Fonte bibliografica: D. Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie [trad. Luigi Civalleri, Adelphi 2014]

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Giada Tonetto

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