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Economia

La segreteria Zingaretti tra controllo del partito e strategia dell’opossum

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Federico Baldelli

Le elezioni regionali, come il loro nome suggerisce, dovrebbero servire a eleggere organi regionali. Purtroppo, in Italia vige una tendenza a considerare in contesto nazionale qualsiasi avvenimento modifichi degli equilibri di livello locale. Nell’ultimo anno è stata elevata a livello nazionale l’importanza delle elezioni regionali in Umbria (il famoso “esperimento umbro” in cui PD e 5S si presentarono alleati), in Basilicata e ancora di più in Emilia-Romagna.

La settimana scorsa, in cui sei regioni hanno rinnovato presidente e consiglio regionale, la tendenza si è confermata (la Valle d’Aosta presenta una legge elettorale proporzionale e un sistema partitico locale che rende complicate le comparazioni) . Il centrodestra, con particolare protagonista Matteo Salvini, aveva già alzato le attese sulle votazioni perché Toscana e Puglia, due regioni governate da giunte di centrosinistra, avrebbero potuto cambiare colore. Sicuramente l’opposizione avrebbe agitato la vittoria in cinque regioni su sei come un chiaro segno che “il Paese non è con il governo” e avrebbe chiesto con forza di tornare al voto.

Allo stesso modo il centrosinistra, soprattutto nella persona di Zingaretti, aveva strategicamente evocato il suo ruolo di “argine alle destre”, utilizzando ripetutamente una retorica basata sul “luogo non si Lega”, come già fatto per le elezioni in Emilia-Romagna. Entrambi gli atteggiamenti non provano nemmeno a prendere in considerazione che le elezioni regionali sono, appunto, regionali, e sarebbe corretto evitare di trarne conclusioni su piani di analisi diversi.

Leggi anche: Guida alle elezioni regionali 2020.

Tre a tre, palla al centro

Nella fattispecie, il centrosinistra è riuscito a mantenere Puglia e Toscana e le elezioni regionali si sono chiuse in pareggio, concedendo tre regioni al centrosinistra e tre al centrodestra. Questo risultato ha impedito a Matteo Salvini di strumentalizzare la tornata elettorale sul piano nazionale, ma ha permesso allo stesso tempo a Zingaretti di dipingere il Partito Democratico come vincitore delle elezioni. Il rischio di una sconfitta 5-1 era certamente reale per il PD, e dunque il risultato è indubbiamente considerabile come uno “scampato pericolo”, ma non è neppure corretto definirlo come un successo.

Circola un video esageratamente celebrativo firmato da “le amiche e gli amici di Nicola” in cui Zingaretti appare sotto le note di Io sono ancora qua di Vasco Rossi. Su Instagram il segretario riporta con enfasi i voti complessivi nelle sei elezioni, che vedono il PD primo partito, fatto che nessuno nel PD ha mancato di fare notare in questi giorni. Il problema è che basta sommare i numeri delle coalizioni per verificare come il centrodestra sia ancora saldamente in vantaggio, e il calo della Lega sia interamente assorbito dai guadagni di Fratelli d’Italia. Ma non si tratta di una novità, in quanto questa comunicazione è perfettamente in linea con il PD disegnato dal segretario Zingaretti.

Nicola Zingaretti, lo stratega dell’opossum

Dall’elezione a segretario nel 2019, Zingaretti ha reso il Partito Democratico più silenzioso possibile, limitandosi a dare una ripetitività ossessiva alla condizione di “argine alle destre”. In questo modo ha evitato di imbarcarsi in una seria progettualità politica, ma utilizzando la tipica tecnica populista dell’individuazione del nemico ha mantenuto l’egemonia nel campo del centrosinistra. Il fatto di non essere Matteo Renzi – che aveva concluso la sua esperienza con un biennio disastroso in quanto a comunicazione pubblica – e il contemporaneo naufragio dell’inconsistente e caotico Movimento 5 Stelle gli ha permesso di tornare a un livello dignitoso di consenso popolare, che comunque non ha mai superato il 23%.

Ha messo in atto, come la definisce Luca Sofri, la strategia dell’opossum: quando ci sono pericoli intorno, decisioni da prendere, responsabilità da assumersi, fingere di essere morti. L’indecisione del PD e di Zingaretti è stata esemplare nel caso della crisi di governo dell’agosto 2019. La reazione immediata di Zingaretti, pur non essendo tra i maggiori oppositori del M5S all’interno del partito, fu quella di negare categoricamente l’ipotesi di un governo con i pentastellati.

Dopo pochi giorni, Matteo Renzi, da sempre avverso ai grillini, sorprese la politica italiana e aprì la strada al nuovo governo. A quel punto Zingaretti, preso in contropiede, fu costretto a “dettare nomi e condizioni”: no al taglio dei parlamentari, cancellazione dei decreti sicurezza e no al Conte bis. Il nome di Conte ci ha messo poco tempo a imporsi, il taglio dei parlamentari è diventato realtà pochi giorni fa e i decreti sicurezza non sono stati toccati.

Leggi anche: PD in crisi d’identità.

Il PD della segreteria Zingaretti

Questi processi sono stati gestiti ignorando del tutto le ragioni della base del Partito Democratico. Numerosi circoli si erano schierati apertamente contro il taglio dei parlamentari, ed era risultato evidente che tra gli iscritti non ci fosse assenso nei confronti della riforma. I dati confermano che gli elettori del PD, nonostante la presa di posizione dei vertici, hanno in maggioranza votato No al referendum costituzionale. La richiesta di cambiamento dei decreti sicurezza cade ancora nel vuoto.

Ma anche tra i parlamentari c’è chi prova a proporre qualcosa di differente senza esser preso in considerazione. L’ex presidente del partito Matteo Orfini e altri giovani deputati (Giuditta Pini e Chiara Gribaudo tra le più attive) si sono pronunciati più volte contro i decreti sicurezza e hanno annunciato di votare contro la riforma costituzionale, facendo presente che la tardiva direzione con cui il Partito Democratico ha annunciato il suo Sì fosse fondamentalmente una forzatura da parte del segretario.

Giuditta Pini e Matteo Orfini durante una diretta nel periodo del lockdown.

Il Segretario bifronte del PD

In questo anno e mezzo dunque, la segreteria di Zingaretti ha mostrato due facce: un volto esteriore remissivo e debole verso gli alleati di governo, un’apparenza timida e poco personalistica (evidente differenza esteriore rispetto alla segreteria Renzi), ma un controllo del partito che non ha nulla da invidiare al centralismo di cui era accusato Renzi stesso quando guidava il partito. Nel caso particolare, Zingaretti è appoggiato da una dirigenza che, riacquistata centralità dopo l’inconcludente stagione della “rottamazione”, ha imposto un forte disciplina partitica, volta a mantenere la permanenza al governo che il Partito Democratico può vantare ormai da circa dieci anni quasi ininterrottamente.

Il 10 settembre Roberto Saviano ha attaccato frontalmente il partito affermando che: «Il PD è ormai soltanto vapore acqueo», dopo aver detto che: «Zingaretti mostra grande determinazione sulle cazzate e si defila sulle questioni fondamentali». Il segretario ha risposto con la solita formula: «Decine di migliaia di donne e di uomini che stanno difendendo la democrazia italiana contro le destre di Salvini e Meloni meritano rispetto». Questa risposta è la dimostrazione perfetta dell’inconsistenza appena descritta. Prima si ignorano i militanti e le loro opinioni in nome delle manovre politiche e in dispregio della democrazia, ma quando arrivano le accuse di immobilismo li si usano come scudo, facendo cadere il dibattito sulla difesa dalle destre, spacciata come lotta in favore della democrazia.

Spesso, e anche a ragione, il PD è stato definito come l’unico partito rimasto in Italia ad avere una partecipazione popolare significativa e rilevante (il cosiddetto party on the ground), di fronte ai partiti personali e ai cartel party che avevano fortemente limitato la componente partecipativa e deliberativa al loro interno. Le segreterie Renzi e Zingaretti, anche se in modo alquanto diverso, sembrano essere coerenti e in accordo su un modello di partito verticale comandato da una ristretta cerchia di dirigenti fedeli alla linea. Per quanto riguarda le proposte politiche, c’è la strategia dell’opossum.

Nota: il 5 ottobre, successivamente alla pubblicazione di questo articolo, il Consiglio dei Ministri ha approvato una modifica ai “Decreti Sicurezza” sopracitati che va ad eliminare alcune parti estremamente restrittive su immigrazione, integrazione e ordine pubblico. Sebbene la riforma vada valutata attentamente, e il senso dell’articolo che avete appena letto non risenta dell’intervento del CdM sui Decreti Sicurezza, è doveroso specificare un importante sviluppo nelle questioni appena affrontate.  

Leggi anche: Da controfigura a leader: ma come ha fatto Giuseppe Conte?

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Federico Baldelli

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