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Spettacolo

Sto pensando di finirla qui: il nuovo film di Kaufman su Netflix

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Anastasia Piperno

Se da una parte il cinema si risveglia dal precedente lockdown con l’uscita di Tenet di Christopher Nolan, il temuto nemico di esso, il servizio di streaming Netflix, dà una sonora controbattuta con un’uscita autoriale importante, Sto pensando di finirla qui (I’m Thinking of Ending Things) di Charlie Kaufman, noto sceneggiatore (autore di Essere John Malkovich, Se mi lasci ti cancello) e regista (Synecdoche New York) di impronta inconfondibile.

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Si tratta forse di uno dei prodotti più estremi per le mire più consuete di Netflix, probabilmente fuori target anche per molti dei suoi fruitori, che si potrebbero trovare spaesati e respinti da alcuni punti sfidanti del film. L’ultima opera di Kaufman, adattamento delll’omonimo thriller di Ian Reid, è un meccanismo che invita a farsi scomporre e ricomporre. L’autore gioca con il suo spettatore, depistandolo non di rado e lasciandogli al contempo indizi piuttosto palesi, che invitano a considerare le insidie di una voce narrante inaffidabile, come un disegno narrativo molto più sfaccettato e ingegnoso di quello che può parere dall’inizio – e che vale la pena che il singolo spettatore scopra, nei dettagli più concreti e salienti, da sé, di momento in momento nella fruizione del film.

Kaufman riesce a creare un connubio di un cubo di Rubik cerebrale per lo spettatore e una vena onirica e di autentica angoscia, riuscendo a parlare efficacemente degli aspetti più vivi di una solitudine pervasiva e che non può che dilagare, sempre più nella distruzione crescente della linearità narrativa, con le connotazioni di un incubo claustrofobico.
Sto pensando di finirla qui infatti ha punti in evidente comunanza con i generi thriller e horror – pensando, poi, alla presenza di Toni Colette, qui madre del protagonista, che ha già abitato atmosfere oscure di recente in Hereditary di Ari Aster, ma anche ai possibili rimandi a Hitchcock, in particolare Psycho. Ancora di più, di certo, contiene tinte grottesche e assurde, dove la minaccia più che essere dichiarata, è strisciante e risiedente nella perdita di coordinate normali e familiari, sprofondando sempre di più nel disordine della psiche.

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L’ultimo film di Kaufman è anche un ulteriore esempio di postmoderno: non solo per le contaminazioni di generi, toccando anche il musical e il mélo, ma anche per la nota fortemente citazionista. Il film è un unico tessuto di derivazioni dalla storia del cinema, della letteratura, dell’arte, come in generale della cultura (filosofia, estetica). Qui la grande mappa di riferimenti, evidentemente dello stesso Kaufman, si espande senza remore, anche senza preoccupazioni di eventuali disorientamenti o distanze procurate allo spettatore medio, inserendo interi dialoghi simili a inserti culturali, talvolta parodistici. Ed è eminentemente postmoderno nel suo essere autoriflessivo, nel fare cinema e riflettere fittamente sul discorso cinematografico stesso, come sui poteri e i limiti della creazione artistica in generale.

Costruire un’opera d’arte

Al centro di Sto pensando di finirla qui, come da titolo, non ci può che essere il senso di un termine, di un fallimento. Si incontra ai primi minuti Lucy (Jessie Buckley), la quale pronuncia l’intenzione di finirla qui, facendo riferimento alla sua relazione sentimentale, iniziata da poco, con Jake (Jessie Plemons). Tra i tanti generi confluenti infatti c’è anche quello del road-movie, dato che buona parte del film si svolgerà in un furgoncino in pieno inverno. La strada rappresenta certamente il cammino di ogni individuo nel corso della vita, ma anche il bisogno stesso di incamminarsi in una direzione, e la relazione tra Lucy e Jake è percepita da Lucy come senza alcun futuro, senza palesi sbocchi. Dura da sei settimane soltanto, si dice, eppure sembra che duri molto di più. L’affermazione in realtà acquisterà nel corso della narrazione una stratificazione e una polisemia sempre più ricche.

Foto: letterboxd.com

È estremamente importante, infatti, il discorso sul tempo, la temporalità, strettamente legato alla memoria e all’influenza della psiche sulla percezione stessa del tempo. Il tema dei ricordi è sempre stato caro a Kaufman, basti pensare a Se mi lasci ti cancello, del tutto esemplificativo per il tema. I due estremi di un percorso vitale non possono che essere l’infanzia e la vecchiaia, e Sto pensando di finirla qui li congiunge – tramite la presenza della terza figura ricorrente di un vecchio bidello, interposta nel montaggio del film alla vicenda dei due giovani. Infanzia e vecchiaia si confrontano, come si confronterebbero ambizioni sperate e, grattando sotto la superficie, una più indesiderata realtà dei fatti, che si è accumulata giorno dopo giorno. Come in tanti altri film di Kaufman, c’è una dimensione di ciò che sarebbe potuto essere e un’altra, spesso più desolante, di ciò che invece è successo ed erode lentamente i suoi protagonisti. Lo stesso Jake ha un culto particolare per l’infanzia, manifestato attraverso numerosi riferimenti culturali, come la poesia Ode: Intimations of Immortality from Recollections of Early Childhood di Wordsworth. Lo spazio infantile spesso rivisitato e rivisitato è il segno di un passato idealizzato, una nostalgia di qualcosa che non si è mai veramente verificato. Di certo è il tempo spensierato dove si accumulano visioni su visioni del genere cinematografico per eccellenza del sogno da realizzare: il musical, dove si permette che lo spettacolo, con i suoi poteri, superi i vincoli della vita reale.

La realtà dei personaggi di Kaufman, tuttavia, è intrisa spesso di solitudine, di cui Sto pensando di finirla qui è forse uno degli esempi più cupi. La realtà è fatta di rapporti colmi di non-detti, che tuttavia lasciano scie di evidente malessere, di distanza emotiva, creano barriere, di azioni, spesso, mai intraprese, di speranze mai soddisfatte e ormai consumate. Di contro vi è sempre un posto migliore, che vivifica l’immaginazione, il desiderio di fuga dallo squallore del reale, ed è il cinema, la letteratura, come altre arti.

Foto: cinapse.co

L’opera artistica diviene il dispositivo per eccellenza su cui espandere la mente, dare corpo al complesso reticolato in cui si è immersi, creando proprio quella caratteristica in parte senziente, in parte incontrollata, dove l’esperienza umana trova una sua forma architettata, modellata. Kaufman si rapporta persino alla critica in alcuni punti, dove cita inserti critici e lascia che uno dei suoi personaggi la mimi, incarnandola ironicamente per qualche minuto. L’esempio apportato è una critica di Pauline Kael a Una moglie di Cassavetes, dove l’intento spesso sin troppo intellettuale, dissezionatore e snobistico del critico pretende di tracciare intenti del tutto consapevoli nell’artista, nella ricerca di precisi scopi e precisi significati all’interno di qualsiasi sezione di una sua opera.

Kaufman mostra attraverso Sto pensando di finirla qui la complessa congiunzione tra psiche e motore creatore, dove il processo creativo non appartiene meramente all’autore, ma viene esercitato persino dai suoi stessi personaggi. Si complica la relazione tra voce narrante e personaggi, invitando esplicitamente, qui e là, a considerare la relatività dei punti di vista, o destabilizzando la visione con improvvisi e disorientati angolazioni della camera.

Foto: consequenceofsound.net

Si interseca, dunque, una realtà piccola con un’espansione artistica estremamente ramificata, sempre più fuori controllo e dunque più ardita. Pare una costante del regista il confronto, spesso nelle vesti di un probabile alter-ego che assorbe le manie e ossessioni del suo autore, tra mediocrità e grandezza. La grandezza artistica spesso si regge su mediocrità altrimenti molto comuni, quotidiane, se non intrise di cecità, di abbandono, di rapporti mancati, di occasioni perse, e di tutto ciò che alberga nella parte meno desiderabile di ognuno e che tuttavia non può che entrare in circolo in un processo artistico autentico. Specialmente in Sto pensando di finirla qui l’opera artistica infatti si realizza nel tentativo di esprimere lo scoglio tra la realtà esterna e la propria soggettività, caratterizzata spesso da fragilità. Si fruisce volentieri di opere artistiche anche nel tentativo di calarsi profondamente nell’esperienza di un altro soggetto, e in questo Kaufman, con quest’ultima opera, fa di nuovo un lavoro radicale e accurato.

Si inserisce un discorso metacinematografico anche nel palesare come socialmente lo spettacolo, e così anche altri media, abbiano creato a loro volta false aspettative nelle soggettività di ognuno, che colpiscono aspetti inter-relazionali. Sto pensando di finirla qui infatti attua un discorso estremamente mediato, appoggiandosi a innumerevoli parole, immagini, idee di altri, che vanno a costruire la soggettività, la mentalità e le attese dei personaggi. Il discorso è portato all’estremo dalle vicende personali di essi, a servizio delle esigenze narrative di un film che rasenta la follia, ma che al contempo riesce bene a far dialogare vari temi, varie posizioni artistiche, tra l’autore e la stessa opera letteraria, l’autore e le aspettative della critica, come particolare spettatrice, l’autore e le aspettative dello spettatore medio, come anche la soggettività del singolo plasmata dai mille stimoli che si intersecano nella fitta rete che abita.

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