Durante l’edizione serale del Tg1 di martedì 29 settembre, abbiamo assistito a una variazione del tema che la redazione del principale telegiornale ci propone ormai instancabilmente da mesi. Al posto della rubrica dedicata ai devastanti effetti del cambiamento climatico, annunciati con prosaico distacco dalla conduttrice, una strizzata d’occhio al pubblico più fedele del servizio pubblico, gli anziani.
Il servizio era incentrato sui giovani italiani, sulla loro incapacità (o non volontà, come suggerito più volte) di emanciparsi e diventare economicamente indipendenti. Nel servizio si cita la celebre pellicola francese Tanguy, in cui la parabola di un figlio decisamente non prodigo che non vuole saperne di schiodare da casa è narrata con leggerezza, umorismo e una certa dose di malignità tipicamente d’oltralpe.
Nel film del 2001 si prevede ciò che, diciannove anni dopo, è una triste realtà: figli adulti che non vogliono lasciare il nido. Il servizio del Tg1 sottolineava come, nei Paesi nordici, sia normale per un giovanissimo scalpitare per andarsene di casa. In chiusura, si sceglieva di affidare una riflessione al giornalista e umorista Beppe Severgnini, che con l’aria di chi non sta affatto facendo dell’ironia osservava come i giovani italiani: «Preferiscono rimanere con i genitori perché è più comodo». E, se proprio non riescono ad andarsene: «La colpa è del lavoro che non c’è».
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Stante la premessa che i telegiornali nazionali sono lo specchio della maggioranza non silenziosa della nazione, costituita, statistiche alla mano, da anziani. Posto che paragonare l’Italia a Paesi come la Svezia, citata nel servizio, lascia il tempo che trova. Considerato che la laconica chiosa finale di Severgnini ribadisce un problema ampiamente masticato e digerito dall’opinione pubblica, limitandosi a ripeterlo senza proporre soluzioni, sorge una questione.
Come evadere da questo continuo lancio di stracci tra la generazione che ha avuto tutto (i cosiddetti Boomer: la generazione a cui appartiene Severgnini) e chi non sta avendo niente (i Millennial, nati tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, e la Generazione Z, nata dopo la tragedia del World Trade Center)?
Cadere nella spirale della provocazione e rilanciare con osservazioni al vetriolo è una tentazione forte. Ma limitiamoci a indulgere al piacere di bollare le osservazioni qualunquiste sul destino della nostra generazione con un caustico «Ok Boomer». Espressione coniata da una deputata neozelandese venticinquenne per zittire un collega più attempato e diventata improvvisamente uno slogan generazionale.
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La pandemia ha reso evidente che la risposta alle tragedie planetarie non può essere l’individualismo economico, per quanto proclamato subdolamente da potenze mondiali come gli Stati Uniti o la Cina. Ma nemmeno lo strapotere del liberismo, che impoverisce sempre più le fasce più sensibili della popolazione, tra cui proprio i giovani.
La prima risorsa che può venire in aiuto dei giovani è senza dubbio il fattore tempo. Per quanto non si preannuncino certo semplici, la nostra generazione ha davanti a sé molti più anni da vivere dell’attuale classe dirigente, diretta responsabile del disastro economico in cui ci troviamo impaludati. Il ricambio generazionale darà a Millennials e GenZ la possibilità di giocarsi la sacrosanta rabbia generazionale sul campo delle riforme economiche, sociali e culturali necessarie per avere almeno una pensione dignitosa.
La seconda risorsa è la propensione alla condivisione e l’empatia che li contraddistinguono. Nonostante la narrazione della stampa li dipinga spesso come apatici, egoisti e inconcludenti, le giovani generazioni sono spesso in prima linea a portare aiuto in situazioni di emergenza e tendono a formare una rete per crearsi opportunità lavorative.
L’ultima è la vera linea di demarcazione tra genitori e figli. La rete, nell’accezione di Internet e delle sue infinite possibilità. Non solo a scopo di megafono generazionale, ma soprattutto come terreno di gioco nella creazione del lavoro di domani.
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