«Job not done. Finish Ya Breakfast!». Così scriveva sul suo profilo Instagram LeBron James il 27 settembre, quando i Lakers si sono qualificati alle Finals NBA dopo otto anni. Domenica notte (italiana) scorsa ha visto i Lakers campioni NBA, nuovamente dopo otto anni. Ma qual è questo lavoro di cui parlava LeBron? Chiaramente il riferimento principale è alla vittoria del titolo, ma c’è molto dietro a quest’obbiettivo. La stagione dei Lakers è stata condizionata da due eventi traumatici, il Covid-19 e la scomparsa improvvisa di un fratello. Il 26 gennaio di quest’anno un incidente aereo toglieva la vita alla leggenda di LA, Kobe Bryant, a soli 41 anni. Questo scossone emotivo, nella sua enorme oscurità, ha generato un’energia diversa e dato uno scopo superiore alla squadra. Seguendo le parole di LeBron, da quel giorno la franchigia californiana aveva una “missione”, vincere un titolo in memoria di Kobe. Poi è occorso lo stop dell’NBA dell’11 marzo a causa della pandemia globale, che ha portato successivamente alla “Bolla” di Orlando. Qui si è conclusa la Regular Season e poi sono stati svolti i successivi Playoffs. Proprio in questo surreale contesto sono andate in scena delle meravigliose Finals contro la sorprendente Miami.
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Il primo aspetto da sottolineare di queste Finals è la profonda distanza di età tra le due finaliste. Da una parte i campioni di tanti anni, LeBron James (35 anni), Rajon Rondo (34), Danny Green (34), Dwight Howard (34), Markieff Morris (31). A questi si aggiungono i più giovani Anthony Davis (27), Kentavious Caldwell-Pope (26) e Alex Caruso (26), ma che sono comunque più anziani ed esperti della giovane corazzata degli Heat. Miami vede nel suo quintetto titolare Jimmy Butler (31), a cui si aggiungono i veterani Goran Dragic (34) e Andre Iguodala (36), ma solo da sesto uomo. Assieme a JB gli Heat hanno avuto tra i protagonisti tre giovani, tra cui un rookie. Tyler Herro (soli 20 anni), Bam Adebayo (23), Duncan Robinson (26) hanno trascinato la propria squadra alle prime finals da otto anni, proprio da quella Miami del loro avversario LeBron James. È chiaro che oltre all’età è contata anche la netta differenza di esperienza in partite di questo livello. Rondo è al suo secondo anello, dopo quello conquistato 12 anni fa con i Boston Celtics. LeBron è invece al suo quarto anello (dopo i due con Miami e uno con i suoi Cavs). Denny Green è al suo terzo anello (secondo consecutivo!) dopo quello con Toronto e San Antonio. Nella giovane Miami anche la superstar Butler era alle sue prime Finals, come la maggioranza della franchigia. Gli unici due veramente abituati a tali pressioni sono Dragic e Iguodala. Il primo vanta un europeo con la Slovenia assieme a Luka Doncic. Il secondo ha in bacheca i tre titoli con i Warriors e un titolo di MVP delle Finals. Sicuramente la tanta esperienza dei Lakers si è vista nei possessi importanti, ma molto spesso è rimasta appannata, anche grazie a Miami.
Nello specifico, infatti, Miami è riuscita a mettere in difficoltà i veterani dei Lakers con la sua pallacanestro energica e di movimento. Coach Spoelstra all’inizio di questa serie finale sapeva di andare contro una squadra nettamente più fisica della sua, quindi ha puntato sullo schema della small ball. In gergo cestistico questa definizione sta ad indicare l’assenza di un vero e proprio centro (numero 5 se parliamo di posizioni) e l’utilizzo di un lungo in quella posizione. Questa scelta comporta un’assenza del gioco in Post (tipico gioco dei centri quando sono spalle al canestro), per invece prediligere una circolazione forte di palla. Quest’ultimo aspetto è stato utilizzato a livelli eccelsi da parte della squadra della Florida grazie ai tanti “penetra e scarica” e handoff. Tutto ciò è stato reso possibile dalla presenza nel roster di un giovane fenomeno come Bam Adebayo, nigeriano di 2,06 metri con mani educatissime. Mettendo appunto come 5 Adebayo, gli Heat hanno mantenuto un attacco leggero che puntava a far cambiare continuamente la difesa avversaria per liberare il tiratore dall’arco. Questa tattica è spesso vincente se hai due tiratori di prim’ordine come Robinson e Herro. Le due giovani guardie hanno avuto delle percentuali abbacinanti. Entrambi oltre il 35% sia da 3 punti, sia come FG (field goal, percentuale di realizzazione) e un Robinson che vanta il 100% ai tiri liberi. Assieme a loro hanno contribuito alla causa Crowder e Nunn, ma soprattutto il sorprendente canadese Kelly Olynyk, con la miglior percentuale dall’arco (oltre il 40%). Tutta la macchina però doveva essere ben gestita, e Miami aveva il leader giusto: 55% dal campo, 30% dall’arco e 88% ai liberi. Queste le statistiche straordinarie del texano Jimmy Butler, che ha condotto i suoi in ogni partita donando ogni energia, testimoniati degli oltre 42 minuti di media giocati.
La scelta della small ball però porta a un grande rischio calcolato: la lotta a rimbalzo sarà molto più difficile. Guardando le statistiche, i numeri delineano perfettamente quello che è stato l’andamento della serie. 45 rimbalzi di media (Lakers) contro 37,5 (Heat), ma il dato più rilevante sono i rimbalzi offensivi (27% contro il 16%). Questo ultimo elemento è stato una delle chiavi della serie, perché ha garantito ai lakers quasi il doppio di second chance (ovvero extra-possesso oltre i 24 secondi canonici) rispetto agli Heat. L’altra chiave, più positiva per Miami, è stata la scelta difensiva: contro una squadra più alta e forte, la priorità è riempire l’area e impedire troppi rimbalzi e penetrazioni. Come si ottiene questo? Usando la difesa a zona: non si marca a uomo, ma si resta dentro il pitturato concedendo più tiro da 3 punti agli avversari. Questa strategia rischiosa è stata adottata da Spoelstra con senno, poiché i Lakers non vantano eccelsi tiratori puri, ma tiratori di sistema come Green e Caldwell-Pope. La speranza degli Heat era riposta in brutte serate per i tiratori dei Lakers, che invece hanno risposto con una continuità impressionante. Quelle poche serate (Gara 3 e 5) hanno concesso agli Heat di prendersi la vittoria, ma ovviamente sono state insufficienti.
Citando il commentatore nostrano Flavio Tranquillo: «L’attacco parte dalla difesa». Questo è stato il leitmotiv dell’attacco Lakers, che ha spadroneggiato in difesa e che doveva correre tanto sui continui ribaltamenti dell’attacco di Miami. Proprio la difesa portava spesso a palle perse di Miami e al conseguente contropiede di Los Angeles, che ha in LeBron e AD due primatisti in questo campo. L’attacco giallo-viola vuole correre per impedire alla difesa di Miami di schierarsi, poiché in quel frangente emerge la grande fragilità dei Lakers. Mentre Miami si muove, i Lakers si basano sul penetra e scarica e sul gioco in post. Grande percentuale degli attacchi è condotta da LeBron, che è il nemico pubblico numero uno per quanto riguarda le penetrazioni al ferro. Miami ha difatti usato la zona in funzione di impedire a LeBron di entrare facilmente in area, ponendo una vera e propria muraglia umana. Difatti quando il 23 di Akron riesce a mettere piede nel pitturato, la difesa “collassa” (tecnicismo per intendere “si chiude”) su di lui, allora cerca di scaricare per i tiratori liberi negli angoli. Essendo LeBron probabilmente uno dei migliori passatori della storia NBA (assieme a Rondo, anch’esso determinante quando LeBron riposava), spesso trovava i vari Green, KCP, Kuzma, Morris negli angoli. Le partite poi dipendevano dalle loro percentuali al tiro. Quando basse i Lakers hanno perso (per loro fortuna meno delle serate buone). L’altra freccia nella faretra era il fenomeno con il 3, che è maestro del gioco in post, grazie a delle mani sin troppo educate per 2,27 metri di altezza. Spesso però i Lakers hanno cercato troppo insistentemente questa lettura, portando anche a tante palle perse (12,6% di turnover).
La strategia difensiva era semplice: cambiare su qualsiasi uomo, cercando di contestare al meglio i tiri dall’arco di Miami. Spesso dunque gli Heat decidevano di andare al ferro, soprattuto Butler, maestro nell’uno contro uno. Non essendo eccelsi difensori la maggioranza dei Lakers (Kuzma quasi imbarazzante a tratti), il rischio di difendere il tiro da 3 ma di subire in area era alto. Tutto però è più semplice quando hai uno stopper di prim’ordine di oltre 2,20 metri. Anthony Davis ha dominato l’area difensiva, con la straordinaria media di 2 stoppate per partita (dove quasi nessuno arriva a 1) e il 23% di rimbalzi difensivi. Ad aiutare AD chiaramente c’era l’MVP di queste finals, LeBron James, che ha tenuto il 30% di rimbalzi difensivi.
Il primo pensiero dopo il fischio è andato al fratello scomparso, Kobe Bryant. Già durante le finali di conference contro Denver Anthony Davis, appena entrata la sua tripla della qualificazione alle Finals, ha urlato il nome del Black Mamba. Anche durante l’intervista post-partita il suo pensiero è andato al numero 24:
He was a big brother to all of us and we did this for him.
Oltre il titolo, dopo la partita il Commissioner NBA Adam Silver ha consegnato il premio Bill Russell, ovvero quello di MVP delle Finals. Ha usato parole importanti, affermando come fosse sicuro che «un giorno questo premio sarà dedicato a lui». Il chiaro riferimento è a LeBron James, arrivato allo straordinario record di quattro premi MVP delle Finals su quattro titoli vinti. Il numero 23 ha sottolineato come quando parlò per la prima volta con la proprietaria dei Lakers Jeanie Buss (prima donna proprietaria della storia NBA a vincere un titolo), lei avesse promesso che avrebbe riportato i Lakers nel posto che spettava loro. Tutto lascia presagire un futuro radioso per i Lakers, forte dell’asse LeBron-Davis, ma una dichiarazione di quest’ultimo ha gettato un’ombra su questo momento luminoso. Infatti l’ex Pelicans ha affermato quando gli è stato chiesto del futuro che «non è sicuro di cosa accadrà al 100%». Un possibile problema per i Lakers dato che il prossimo anno il numero 3 entrerà nella Free Agency(diventerà svincolato e appetibile per qualsiasi squadra NBA). Bisognerà vedere cosa faranno Davis e i Lakers in futuro, ma nulla toglie per ora l’enorme gioia di aver portato a compimento la “missione” iniziata il 27 gennaio: vincere per Kobe.
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