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Lichtman e i suoi tredici punti per le elezioni americane

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A cura della redazione

Il prossimo 3 novembre gli Stati Uniti andranno alle urne per eleggere il loro presidente. Gli sfidanti saranno da un lato il presidente uscente, il repubblicano Donald Trump e dall’altra lo sfidante democratico Joe Biden, già vicepresidente ai tempi di Obama. In questo scenario, un docente universitario di storia, Allan J. Lichtman, ha stilato nel 1996 una lista di tredici punti, che dovrebbero predire in modo (quasi) certo la vittoria di un candidato piuttosto che dell’altro.

Questo modello, nominato The Keys to the White House, pubblicato per la prima volta nel 1981, ha predetto con esattezza il vincitore di tutte le elezioni dal 1984 ad oggi, ad eccezioni di quelle del 2000 e del 2016. Nel 2000 Al Gore ha vinto il voto popolare, come predetto, ma ha perso il collegio elettorale, mentre nel 2016, il metodo delle tredici chiavi ha previsto Donald Trump come vincitore del voto popolare, quando in realtà lo ha perso, ma ha vinto il collegio elettorale, diventando presidente.

Occorre ricordare che questo non è un metodo scientifico e infallibile. Le tredici chiavi di Lichtman predicono infatti il voto popolare, cioè la maggioranza assoluta a livello nazionale delle preferenze espresse dalla popolazione in favore di uno dei due sfidanti, ma non il numero dei grandi elettori, ovvero i componenti del collegio elettorale che elegge ufficialmente il presidente.

In questo articolo, esaminiamo le chiavi del professor Lichtman e il suo stesso punto di vista sulle elezioni imminenti, con una successiva analisi critica.

Le tredici chiavi

Di seguito, riportiamo le tredici Keys to the White House di Lichtman,con il relativo punto di vista dell’accademico statunitense. Ogni affermazione sarà vera o falsa. Ogni affermazione vera sarà a favore di Trump, mentre ogni affermazione falsa sarà a favore di Biden. Secondo il modello di Lichtman, se almeno sei delle affermazioni sono false, la vittoria sarebbe destinata allo sfidante, in questo caso il rappresentante dei democratici.

Mandato del partito: dopo le Midterm Elections (elezioni di medio termine), il partito in carica detiene più seggi alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti rispetto alle precedenti elezioni di medio termine.

Falso. Le Midterm Elections si tengono ogni due anni, e sono una sorta di test per verificare il gradimento del governo in carica. Alle elezioni del 2018 i repubblicani hanno perso la Camera dopo aver governato dal 2016 al 2018 con due maggioranze alla Camera e al Senato. Nel 2018 si è parlato a lungo di blue wave, ondata blu dei democratici, che sono riusciti a sovrastare i repubblicani sul voto popolare, ottenendo in media l’8% dei consensi in più a livello nazionale. Se il GOP fosse riuscito a mantenere i seggi alla Camera, i democratici non avrebbero mai processato Trump per impeachment e soprattutto non avrebbero bloccato il governo (shutdown) varie volte negli ultimi anni. I numeri al Senato, tuttavia, permetteranno al Partito Repubblicano di confermare la giudice Amy Coney Barrett alla Corte Suprema, una vittoria politica importante che consolida la maggioranza conservatrice alla SCOTUS.

Competizione: non esiste una seria competizione in seno al partito in carica per la nomination.

Vero. Le primarie repubblicane sono state poco competitive. Trump era l’unico candidato in corsa alle elezioni nel suo partito ed è stato il presidente in carica più votato di sempre, nonostante in molti Stati non fossero in programma le primarie. Il tasso d’approvazione del Presidente nel suo partito è altissimo e in questo momento la fronda anti-Trump è già fuori dal Partito Repubblicano: voterà Biden alle prossime elezioni.

In carica: il candidato designato dal partito attualmente in carica è il presidente uscente.

Vero. Trump è il presidente uscente degli Stati Uniti, il cosiddetto incumbent. Ma se, come sostiene Lichtman, l’incumbency è spesso considerata un vantaggio (e fino a prima della pandemia lo era eccome), questa volta trasformare l’elezione su un referendum degli ultimi quattro anni potrebbe favorire gli avversari del Presidente, che insistono sulla pessima gestione dell’emergenza sanitaria che ha causato più di 200.000 morti.

Terze parti: non esistono campagne significative da parte di un terzo partito o candidati indipendenti.

Vero. La sfida è solamente fra i due poli opposti, democratici contro repubblicani. I candidati del Partito Verde e del Partito Libertario, i più grandi, non sono riusciti a presentarsi in tutti gli Stati e stanno ricevendo un’esposizione mediatica bassissima. Nel 2016 Gary Johnson stabilì il record di voti per il Partito Libertario in un’elezione presidenziale, ma era un candidato abbastanza conosciuto dagli elettori americani (era stato governatore del New Mexico). I candidati indipendenti o di terzi partiti vanno molto male nei sondaggi rispetto all’ultima tornata. Biden, per esempio, supera il 50% in parecchie rilevazioni sia a livello nazionale che statale, segno che stavolta gli indecisi sono diminuiti.

Economia nel breve termine: l’economia non è in recessione durante la campagna elettorale.

Falso. A causa della crisi dovuta al coronavirus, l’economia è in un periodo di recessione. I dati sulla disoccupazione mostrano che all’inizio dell’emergenza circa 20 milioni di americani hanno perso il lavoro, il 14% della popolazione attiva, il numero più alto dalla Grande Depressione. La Fed di St. Louis aveva addirittura stimato che i disoccupati sarebbero potuti arrivare a 47 milioni. Le richieste per i sussidi di disoccupazione non sono mai state così alte e soltanto adesso sono scese sotto il milione. Per Lichtman, l’economia è uno dei fattori più importanti.

Economia nel lungo termine: la crescita economica reale pro capite durante il periodo è uguale o superiore alla crescita media durante i due periodi precedenti.

Falso. La pandemia ha causato una crescita negativa del PIL degli Stati Uniti. La crescita del Paese ha subito una pesante battuta d’arresto per via dei lockdown che hanno fermato l’economia degli Stati, in particolare quella del Texas, il motore produttivo degli Stati Uniti, dove il prezzo del petrolio è crollato. Il Congresso e l’Amministrazione Trump hanno approvato la scorsa primavera un pacchetto di stimolo economico pari al 10% del PIL statunitense, concentrandosi principalmente sul potenziamento dell’assistenza sanitaria, del sussidio di disoccupazione e di un assegno mensile di milleduecento dollari a persona. Di recente, il Presidente Trump ha però interrotto le trattative con l’opposizione per l’introduzione di un secondo pacchetto di stimoli. Nonostante ciò, gli elettori sembrano preferire il Presidente in carica rispetto a Joe Biden nella gestione dell’economia.

Per molto tempo si è pensato che l’economia fosse l’argomento elettorale che faceva vincere o perdere le elezioni. La pandemia di coronavirus ha messo in discussione l’unico tema che fino ad era stato molto favorevole a Donald Trump.

Riforme: l’amministrazione in carica ha effettuato importanti riforme nella politica nazionale.

Vero. Dice Lichtman: «Con gli sgravi fiscali e con gli ordini esecutivi, Trump ha cambiato profondamente le politiche dell’era Obama». La riforma fiscale di Trump ha abbassato il carico fiscale per le imprese facendo aumentare però il deficit, arrivato al 5%. I tagli approvati nei primi anni dell’amministrazione Trump, con un Congresso a maggioranza repubblicana, dovrebbero perdere di efficacia tra il 2022 e il 2023. Il Presidente ha già promesso un rinnovo di questi tax cuts nel suo eventuale secondo mandato, portando la scadenza al 2026. Joe Biden propone un incremento delle tasse per chi ha un reddito superiore ai 400.000 dollari annui.

Discorso a parte, invece, per la riforma sanitaria. Trump aveva promesso di abolire l’Obamacare, ritenuta da quasi tutto il panorama repubblicano un disastro, e in tutti questi anni non ci è mai riuscito. Nel 2017 i repubblicani provarono a far passare un nuovo programma sanitario che avrebbe dovuto rimpiazzare l’Obamacare, ma il voto contrario del compianto senatore dell’Arizona John McCain risultò decisivo, bloccando qualsiasi progetto da parte del GOP. Il Presidente si è comunque detto pronto a difendere chi è affetto da patologie pregresse e ha firmato un ordine esecutivo per chiunque sia colpito da pre-existing conditions. In realtà, la nomina della giudice conservatrice Barrett potrebbe non solo sovvertire questo suo ordine esecutivo, bensì l’intero Affordable Care Act, dal momento che c’è un giudizio pendente della Corte Suprema che potrebbe dichiarare incostituzionale l’Obamacare e quindi togliere definitivamente la copertura sanitaria a milioni di americani.

Disordini sociali: non si sono verificati disordini sociali prolungati durante il mandato.

Falso. Negli ultimi mesi negli Stati Uniti ci sono state manifestazioni e proteste, anche violente, contro il razzismo. La morte di George Floyd lo scorso maggio a Minneapolis ha ridato linfa al movimento Black Lives Matter, che per settimane ha sfilato per le strade delle città americane. Il Presidente Trump ha approfittato di questi disordini per insistere sul messaggio law & order, legge e ordine, attaccando gli attivisti di estrema sinistra (Antifa) e difendendo il Secondo emendamento. Biden, dal canto suo, ha subito preso le distanze da chi ha risposto con la violenza, ma ha sostenuto i manifestanti pacifici.

Scandalo: l’amministrazione in carica non è contaminata da grandi scandali.

Falso. Il Presidente USA ha subito un impeachment ed è stato protagonista di altri scandali. Il Russiagate si è risolto in un nulla di fatto, ma insieme ad altri scandali, tra cui la pubblicazione della dichiarazione dei redditi di Trump da parte del New York Times, ha fatto passare l’idea di un’amministrazione poco trasparente e disposta a tutto pur di rimanere in carica. L’inchiesta del Times ha scoperto che Trump non ha pagato le imposte sul reddito per dieci anni su quindici e per due di fila, quando era già presidente, ha pagato soltanto 750 dollari.

Leggi anche: Quid pro quo. L’Ucraina e l’impeachment di Trump

Fallimento estero o militare: l’amministrazione in carica non ha subito gravi fallimenti negli affari esteri o militari.

Vero. Non ci sono stati eventi significativi. Gli Stati Uniti non sono coinvolti attivamente in un conflitto e la politica estera non è mai stata così secondaria come tema elettorale. Ad ogni modo, i negoziati con la Corea del Nord fortemente voluti da Trump sono falliti, l’Iran non è mai stato così vicino all’arma nucleare e aver permesso a un alleato NATO fondamentale come la Turchia di acquistare tecnologie militari dalla Russia sono delle macchie non da poco per un’amministrazione che fin dal primo giorno ha promosso una politica di graduale disimpegno dall’estero.

La politica estera americana ha rimesso in discussione l’espansione commerciale transatlantica avviata da Barack Obama. Donald Trump ha iniziato il suo mandato scartando il TTIP con l’Europa e concentrandosi invece sul contenimento politico della Cina nel sud-Est asiatico.

Successo estero o militare: l’amministrazione in carica ha ottenuto un grande successo negli affari esteri o militari.

Falso. Nulla di negativo, ma nemmeno nulla di significativamente positivo. L’America sta attualmente perdendo la guerra commerciale con la Cina e l’exit strategy in Siria e Afghanistan non promette bene. Occorre segnalare però una politica di ampio respiro in Medio Oriente. L’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani ha creato ulteriore destabilizzazione, ma se vista nel contesto della strategia della massima pressione esercitata da Trump è assolutamente comprensibile. Gli accordi tra Israele e le monarchie del Golfo sono stati mediati da Washington e certificano una rete di alleanze già in vigore da alcuni anni. L’isolamento dell’Iran è la priorità numero uno dell’amministrazione Trump.

Carisma del candidato del partito in carica: il candidato in carica del partito è carismatico o un eroe nazionale.

Falso. Secondo Lichtman, Trump, ad oggi, ha carisma solo su una fetta dell’elettorato e non è considerato un eroe nazionale. Gli indici di popolarità del Presidente sono bassi e l’approvazione del suo operato fatica a superare il 45%. Il suo stile comunicativo non fa presa su tutti gli elettori. Trump è in ogni caso in grado di mobilitare la sua base e fa parlare sempre di sé, anche quando è malato. Ma non è detto che basterà.

Carisma dello sfidante sfidante; il candidato sfidante del partito non è carismatico o un eroe nazionale.

Vero. Sempre secondo l’accademico, «Biden è una brava persona, empatica. Ma non ispira, né è carismatico». È un oratore mediocre, ma sa tenere testa ai suoi avversari. Nel primo dibattito con Trump le aspettative nei suoi confronti erano così basse da averlo paradossalmente favorito. Tutti si attendevano che dalla bocca dell’ex vicepresidente sarebbero uscite delle gaffe. Biden non è un eroe nazionale, ma la sua storia personale (ha perso la sua prima moglie e la figlia in un incidente quarant’anni fa) ha appassionato molto gli elettori americani. L’empatia è forse il suo pregio più grande e in questo periodo difficile potrebbe servire per la sua immagine.

Leggi anche: Il primo imbarazzante dibattito tra Trump e Biden

Risultato atteso

Secondo la lista di Lichtman, si conterebbero sette punti a favore del democratico Biden e sei punti a favore del repubblicano Trump. Per la teoria delle tredici chiavi, allo sfidante basterebbero sei chiavi false per vincere le elezioni. Biden ne ha ben sette. Dovrebbe essere quindi lui il nuovo presidente degli Stati Uniti. In realtà, questo tipo di modelli sono puramente aneddotici e non hanno una base matematico-statistica dietro, a differenza di altre previsioni fondate invece su numeri veri. La risposta, come sempre, sarà: dipende.

 

Gianluca Lo Nostro e Marco Capriglio

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