Dino Giovannini: responsabilità sociale e cambiamento degli atteggiamenti

Il coronavirus ha costretto gli individui a ripensare non solo alla propria quotidianità, ma anche al proprio io e alle proprie priorità. L’Italia è stata elogiata per la gestione della pandemia, ma ad oggi la situazione si sta aggravando sempre di più. Per comprendere l’impatto psicologico di questa situazione, abbiamo intervistato il professor Dino Giovannini, a proposito dell’ansia generata dall’incertezza, della responsabilità sociale e del cambiamento degli atteggiamenti.

Dino Giovannini, psicologo, è Professore Emerito di Psicologia Sociale all’Università di Modena e Reggio Emilia. Si è laureato in Pedagogia a indirizzo psicologico all’Università di Bologna nel 1970 e specializzato in Psicopedagogia all’Università di Torino nel 1973. Professore ordinario di Psicologia Sociale dal 1994 al 2015, ha svolto la sua attività di docenza e di ricerca nelle Università di Bologna, di Trento e di Modena e Reggio Emilia. Ha fatto parte del gruppo fondatore dell’Associazione Italiana di Psicologia (1992) ed è stato il primo coordinatore nazionale della sezione di Psicologia sociale di questa associazione.

Gli ambiti di ricerca del professor Dino Giovannini includono, tra gli altri: l’interazione sociale, identità personale, sociale e professionale, le relazioni intra e intergruppi, il funzionamento dei gruppi di lavoro reali, le tecniche di riduzione del pregiudizio, la competenza comunicativa, le abilità sociali, i ruoli e gli stili comunicativi, le competenze trasversali, i dilemmi della conciliazione tra famiglia e lavoro.
Ha pubblicato oltre duecento contributi scientifici su riviste e volumi nazionali e internazionali. È inoltre autore o coautore di sedici libri, di cui due con editori stranieri.

Dino giovannini
Dino Giovannini. Foto per gentile concessione dell’intervistato.

Oggi theWise Magazine ha incontrato il professor Dino Giovannini.

Si sta discutendo molto su un possibile nuovo lockdown. Come percepiscono le persone la situazione in cui ci troviamo?

«È una situazione caratterizzata da enorme incertezza, che genera inevitabilmente stati d’ansia. Ci sono diversi aspetti da considerare per quanto riguarda la percezione dell’incertezza. Un primo aspetto è quello concernente la paura di ritrovarsi nuovamente chiusi in casa. Durante l’estate, molte persone hanno maturato la convinzione che il virus fosse meno pericoloso, anche se non era ovviamente vero, perché il Covid-19 non era certo stato debellato. L’ultimo DPCM emanato delega di fatto agli Enti locali la responsabilità di prendere delle decisioni per fronteggiare una situazione di giorno in giorno sempre più allarmante. Due i messaggi che arrivano ai cittadini. Da una parte, i vari decreti di presidenti regionali che impongono nuove restrizioni (ad esempio scuola, università, esercizi commerciali). Dall’altra, l’invito forte e chiaro: «restate a casa» il più possibile.

Altri aspetti certamente rilevanti da tenere in considerazione concernono la forte preoccupazione per la nostra economia, per il debito pubblico che aumenta sempre più, per il lavoro e l’occupazione, così come pure per un altro aspetto da non sottovalutare, relativo al fatto che stiamo combattendo contro un nemico sconosciuto e invisibile, che ha come obiettivo solo quello di infettarci e riprodursi. Un aspetto questo che caratterizza la sfera psicologica».

Quali sono altre ricadute a livello psicologico?

«A livello psicologico c’è un problema di autodeterminazione dei propri comportamenti per salvaguardare sé stessi e gli altri che concerne la social responsability, o responsabilità sociale. Non devo solamente pensare a me stesso, con un approccio autocentrato, ma anche agli altri. Qui sta il problema. Ultimamente quasi tutte le persone mettono responsabilmente la mascherina, ma ancora non tutti. E quando a qualcuno che non la indossa viene fatto notare questa mancanza, si verificano spesso anche aggressioni verbali. Aspetto questo incomprensibile perché l’emergenza da affrontare è ancora ad alto rischio e ci troviamo in una situazione che purtroppo si sta aggravando e dobbiamo tener conto che abbiamo davanti ancora i mesi invernali».

Quali sono le categorie che soffrirebbero di più un nuovo eventuale lockdown?

«Mi auguro che questo momento non arrivi mai, perché pensare a un nuovo lockdown fa venire i brividi, e dobbiamo augurarci che sia un’ipotesi molto remota. Ne soffriremmo tutti in misura difficilmente immaginabile. Preferisco riferirmi alla situazione attuale, agli “interventi chirurgici” fatti a macchia di leopardo e al fatto che bisogna cercare di fare di tutto per non chiudere le scuole. A essere danneggiati sarebbero tutti gli studenti e soprattutto gli allievi più giovani, perché più sono piccoli, più ne risentirebbero. Tralasciando di considerare i molteplici problemi già emersi e analizzati durante il lockdown, chiudendo la scuola non viene solo modificato il percorso formativo e di acquisizione di conoscenze, ma  compromesso il processo di socializzazione con il gruppo dei pari in un contesto adeguato e protetto. In pratica una perdita esperienziale non più recuperabile.

Queste considerazione relative al processo di socializzazione valgono ovviamente anche per gli studenti delle scuole superiori e dell’università. Il lockdown ha privato, e priverebbe se ce ne fosse un altro, una generazione di tutte quelle esperienze relazionali e sociali di cui hanno goduto finora le altre generazioni. Circa gli aspetti relazionali e anche affettivi abbiamo già dovuto prendere atto durante il lockdown delle sofferenze e del dolore che hanno colpito le persone che hanno perso dei loro congiunti per colpa del coronavirus. Il problema della perdita di contatto e di relazione è un problema trasversale, con gradi e valenze diverse, che concerne in ogni caso tutte le fasce di età».

Nonostante l’aumento dei casi, alcune persone continuano a negare o a banalizzare l’effetto del virus. Come si può intervenire su questo comportamento?

«I comportamenti di una persona sono guidati dai suoi atteggiamenti. Se, ad esempio, ho un atteggiamento positivo verso lo sport praticato perché convinto che faccia bene alla mia salute farò dell’attività fisica. Gli atteggiamenti si basano su credenze, opinioni, convinzioni e chi pensa, come i negazionisti, che il Covid-19 non esista, non tiene conto del dato di realtà che è incontrovertibile.

Non prenderei in considerazione la possibilità di far cambiare atteggiamento ai negazionisti, peraltro un’esigua minoranza che mette in atto comportamenti finalizzati anche ad altri scopi. Ritengo sia importante invece intervenire sul cambiamento degli atteggiamenti di quanti tendono a sottovalutare l’importanza di essere socialmente responsabili e che sono convinti di non essere colpiti da questo virus, un atteggiamento che caratterizza abbastanza spesso i giovani. Due elementi concorrono a modificare gli atteggiamenti, l’attendibilità della fonte e la forza del messaggio. Il massimo di effetto è prodotto da una fonte attendibile che invia un messaggio forte. Occorre quindi dare importanza a quanto dicono fonti autorevoli, come ad esempio gli scienziati (immunologi, epidemiologi e virologi) che compaiono in televisione. Si deve valorizzare al massimo l’impatto e l’effetto rilevante che le parole di questi importanti studiosi hanno sugli ascoltatori».

Dino Giovannini
Dino Giovannini. Foto per gentile concessione dell’intervistato.

Quanto conta la forza del messaggio e le sue modalità di trasmissione?

«Ritorniamo al cambiamento degli atteggiamenti. Un altro aspetto fondamentale è la forza del messaggio, che riguarda in contenuto espresso. Un messaggio forte è un messaggio chiaro, preciso e comprensibile, che fa riferimento a dati oggettivi, come i dati di ricerca. Ma anche un messaggio video trasmesso in televisione senza commento durante un telegiornale può avere effetti rilevanti sul cambiamento di opinioni e atteggiamenti. Tutti abbiamo visto gli automezzi militari che portavano le bare dei defunti a causa del coronavirus fuori da Bergamo, una visione che ha convinto molte delle persone non pensavano che la situazione fosse così grave».

Quanto conta la percezione del rischio nel mettere la mascherina o nel mantenimento delle distanze?

«In generale, la percezione del rischio è molto soggettiva e dipende da diversi fattori. Tutti si basa sulla sovrastima o sulla sottostima del rischio che si può correre in funzione di una data situazione. Nel caso della mascherina o del distanziamento la valutazione della propria capacità di controllare o meno la situazione, e dunque di correre o meno un rischio, dipende da diverse variabili, quali la struttura di personalità, l’atteggiamento circa il rispetto delle norme e delle regole, la desiderabilità sociale, la spinta al conformismo e l’adesione a valori etici ritenuti importanti.

La responsabilità sociale cui ho accennato prima ha certamente un ruolo determinante perché oltre ad avere a cuore la salvaguardia della mia salute mi  faccio carico di quella altrui. Le persone che per non appannare gli occhiali da vista abbassano sotto il naso la mascherina non considerano che stanno correndo un rischio e che possono farlo correre a quanti incontrano, comportamenti questi non accettabili in una situazione come quella odierna».

Oggi si parla di delega delle responsabilità ai cittadini. Lei è d’accordo?

«In una democrazia chi viene eletto ha la delega per governare e deve farlo per il bene della res publica e dunque anche dei cittadini, assumendosi anche il compito di prendere le decisioni connesse al ruolo svolto. Nel caso specifico di questa pandemia chi governa deve tener conto del parere del Comitato tecnico-scientifico, ma poi deve assumersi la responsabilità di prendere le decisioni operative. Non parlerei tanto di delega. C’è chi ha sottolineato che l’ultimo DPCM lascia molti margini per le decisioni da prendere alle autonomie locali. Il che non significa che quanto decretato in termini di restrizioni non debba essere rispettato dai cittadini, che devono responsabilmente a livello personale e di gruppo rispettare le prescrizioni.

Data la situazione altamente problematica che si è venuta a creare a causa di una recrudescenza della pandemia, a fronte delle decisioni che vengono prese, occorre massima collaborazione da parte di tutti e tener conto che è importante sentirsi corresponsabili, a prescindere dal fatto di condividere o meno pienamente le decisioni che vengono prese da chi ci governa».

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