L’immortalità è un concetto che da sempre affascina l’uomo. E vivere restando immutabili davanti alle lancette del tempo è qualcosa di mitologico. L’unico che invecchia restando giovane e immutato è il tempo stesso, padre delle vite che passano sulla terra. E nella sua consistente certezza, ognuno anela a sconfiggerlo, già sapendo che sarà qualcosa di improbabile. Così chi resta giovane insieme al tempo fa parte di un cerchio, ampio nei numeri e ristretto nella qualità, di persone meritevoli di un posto in prima fila. Tra questi si annoverano scrittori, politici, attori, cantanti, compositori, sportivi, artisti di ogni genere e casta; e ognuno di questi ha come fregatura quella di risultare immortale solo dopo la propria morte.
Ci sono attori che hanno segnato l’infanzia, l’adolescenza e, per i più fortunati, anche l’età matura del proprio corso vitale. E scoprire che magari, da un giorno all’altro, questi personaggi non potranno più apparire sul grande schermo, lascia un piccolo grande sconforto. È uno di quei momenti di trascurabile infelicità che il cuore percepisce e che la mente prova a scacciare. Il pensiero da scacciare, da adesso in poi, sarà quello della morte di Sean Connery.
Anzi, Sir Sean. Perchè lo scozzese fu nominato Baronetto dall’immortale (a proposito di mitologia) Regina Elisabetta II, onore e onere non a molti concesso nell’arco del suo regno. Ma il volto storico di 007, oltre ad aver avuto la fortuna di ricevere lo smoking e lo charme per possedere la licenza di uccidere, si è distinto a tal punto da avere avuto la licenza di vivere come Sir della sua amata terra natale.
È stato proprio il personaggio creato dalla penna di Ian Fleming a trasformare la vita di Sean Connery da “normale” a “mitologica”, in attesa che diventasse, dopo la sua scomparsa, immortale. L’eleganza con cui ha portato sullo schermo James Bond ha fatto innamorare milioni di persone di un viso giovane negli occhi e maturo nelle linee. L’aplomb inglese prese vita nella pronuncia del suo «Martini agitato non mescolato», portandolo dal 1962 alla ribalta internazionale come interprete perfetto della spia inglese.
All’inizio degli anni Sessanta Sean Connery conobbe il successo con la trasposizione cinematografica dell’affascinante spia-gentiluomo. Di lì in poi l’ascesa fu totale: dopo i successi con pistola in mano e una lunga lista di Bond girls ai suoi piedi, lo scozzese raggiunse alla fine della sequenza dei vari 007 dei ruoli che si allontanavano completamente da quelli che richiedevano lo charme e l’arguzia dell’agente dell’MI6.
Il 1986 fu l’anno di Highlander, dove il personaggio di Juan Sánchez Villa-Lobos Ramírez cominciò a far intravedere la vera capacità attoriale di Connery. I ruoli da lui interpretati di lì in poi furono quasi sempre quelli di personaggi intenti nella creazione morale del protagonista. Funzionava da tramite per forgiare la personalità di chi sarebbe poi stato il fulcro del film.
Una sorta di “attore non protagonista”, categoria che lo consacrò internazionalmente con un Oscar nel 1988, grazie alla sua magistrale interpretazione nel capolavoro di Brian De Palma The Untouchables (Gli intoccabili). Oltre al cast di grande spessore, dove figuravano nomi come Robert De Niro, Kevin Costner, un giovanissimo Andy García, quel film fu un vero e proprio caposaldo della carriera del baronetto, che finalmente non era più conosciuto e riconosciuto solo per aver vestito i panni della spia più famosa del cinema.
Considerarlo solo per i ruoli che l’hanno reso iconico potrebbe essere decisamente sbagliato. Eppure, come già detto ampiamente, l’agente 007 e il poliziotto Jimmy Malone sono stati sicuramente i due personaggi meglio riusciti della sua carriera. Ma l’ultimo decennio della sua carriera, quello che l’ha portato alla soglia dei settant’anni, è stato senza dubbio l’apoteosi della saggezza cinematografica di un uomo che ha dato una mimica alle parole.
Se è vero che l’attore bravo è quello che parla solo con lo sguardo, allora Sean Connery, oltre che con gli occhi, riusciva a regalare allo spettatore una lettura nascosta nell’intonazione che dava alle parole: rendeva ogni battuta viva grazie alla sua pronuncia prettamente britannica e fastidiosamente perfetta. Regalava alle lettere una propria mimica.
Scoprendo Forrester fu l’ultimo lungometraggio di Connery con la figura del personaggio vate. In quel film interpretò William Forrester, uno scrittore che impara a conoscere il giovane Jamal, promessa del basket e della scrittura. Il personaggio disegnato dalla penna del regista Gus Van Sant calzava a pennello con la personalità dell’attore, che in ogni interpretazione rendeva nuova la concezione di recitazione. Rielaborò la figura dell’attore non protagonista, dando importanza a chi prima pensava di dover rimanere ai margini della scena, rendendolo in tutto e per tutto parte fondante del film.
Quello fu l’ultimo personaggio prima del ritiro e probabilmente anche il perfetto apice per una carriera semiperfetta (in realtà comparve anche nella Leggenda degli uomini straordinari nel 2003, ma non è un film che vale la pena ricordare). Iniziò a recitare avendo licenza di uccidere, finì di farlo regalando agli altri la licenza di vivere nella stessa maniera in cui visse lui. Agitando il suo aplomb, senza mescolarlo con la banalità, elegantemente vestito della sua pronuncia inglese.
E a novant’anni, dopo una carriera da baronetto del cinema, si è meritato il giusto riposo nel cimitero degli immortali di quest’arte.
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