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Gigi Proietti, il mandrake della risata

Published by
Simone Biondi

Spiegare il significato di “mandrakata” non si può. E probabilmente non se ne sente neanche la necessità. Perché tutti sanno che cosa sia, e chi non lo sa percepisce il valore che ne deriva con una risata. Una parola che contiente un mondo fatto di volti, risate, battute, film, scene viste e riviste. Contiene Roma. Contiene la romanità che è stata messa su un palco e sullo schermo da un figlio della città eterna.

Gigi Proietti, romano e romanista, era l’ultimo mandrake della scena romana. Rappresentava l’ultimo Maestro e il più solido pilastro rimasto di una recitazione che, da oggi, non esiste più. E non si parla di qualità, perché quella negli anni si potrà sempre ritrovare in qualche modo. Ma si tratta di quella memoria storica che viveva nei gesti che faceva, nelle parola che usava, nella risata che emanava.

Scrivere di Gigi potrebbe ridurre a banale e convenzionale ciò che è stato per intere generazioni, dai più anziani ai più giovani. E il controsenso, nel suo caso, sta nel sentire la necessità di ricordarlo nonostante non abbia bisogno di essere celebrato con parole, perché tutta la sua carriera è stata una celebrazione continua con le risate che ha fatto nascere.

Dal teatro a Febbre da cavallo

La presenza scenica non si acquisisce. Non del tutto perlomeno. Si possiede geneticamente; e così come nell’arte sono critici e visitatori a decidere cosa ne fa parte e cosa no, così anche nel teatro sono gli spettatori a decretare chi sia in grado o meno di essere un tutt’uno con il palco. Gigi Proietti esordì nel 1963 con il Can Can degli italiani e già lì, in quello spaccato tra contemporaneità e modernità teatrale, il romano cominciò a far vedere la sua caratteristica capacità di scombinare le regole.

Con il Gruppo Sperimentale di Calenda raggiunse notorietà in ambito teatrale, prima di consacrarsi nel 1976 con il suo A me gli occhi please. Questo probabilmente il suo capolavoro più grande: un sintetico spettacolo di personaggi e personalità che appartengono a una stereotipizzazione della cultura italiana e della tradizione romana. In questo frangente emerge la sua poliedricità, mostrando al mondo degli artisti che può annoverarsi tranquillamente tra i più grandi di sempre. Il suo dinamismo facciale e la sua dizione imperfetta nei soli momenti in cui lui sceglieva che lo fosse, lo resero adatto per ogni situazione: dal comico al tragico, dal drammatico al grottesco.

Ma fu sicuramente nella commedia che trovò il suo cavallo di battaglia. E a proposito di quadrupedi, con Febbre da cavallo riscrisse il concetto di bibbia a Roma. Ogni romano che si rispetti avrà visto almeno una volta il lungometraggio di Steno; e se non tutto, almeno un piccolo spezzone. Magari la scena in cui Fioretti Bruno si incastra nella pronuncia di un «whisky maschio senza raschio» o quella in cui il suo sorriso magico incanta (e inganna quasi del tutto) fingendosi «il grande Rossini».

Tra consacrazione, creazione e doppiaggio

Quello che doveva essere il primo di svariati tuffi nella scena cinematografica, restò soltanto un pensiero sul trampolino. Gigi Proietti non riuscì mai a lanciarsi nella giusta maniera sul grande schermo, nonostante la qualità della sua arte fosse visibile a tutti. Restò così indissolubilmente legato al teatro, tanto che dopo aver preso in mano la direzione tecnica del Brancaccio, storico teatro romano, creò un laboratorio di esercitazioni sceniche.

Fu dal finire degli anni Settanta che decise di dar vita a una scuola vera e propria, che potesse accogliere quei talenti bisognosi d emergere e di cui l’arte teatrale aveva disperatamente bisogno. Da questa sua intuizione presero vita figure oggi di primissimo piano nella comicità romana, come Enrico Brignano e Rodolfo Laganà. E ancora oggi la sua istruzione è portata avanti sulla scena da questi peronsaggi che hanno avuto la fortuna di lavorare con un genio visionario come Gigi Proietti.

Ma oltre alla mimica e alla capacità attoriale, è la voce a rendere una persona unica nel suo genere. E così, dopo essere stato un abile trasformista, prestò la sua intonazione inconfondibile a grandi personaggi del cinema hollywoodiano (tra cui Robert de Niro, Sylvester Stallone, Dustin Hoffmann) oltre che al Genio della lampada nel riadattamento disneyano di Aladdin.

L’ultimo Gigi Proietti

Negli anni seguenti provò a rilanciarsi nel cinema nei film dei fratelli Vanzina (dove in Un’estate al mare diede vita a un rivisitato Conte Duval), ma fu nel piccolo schermo che trovò soddisfazione maggiore la sua comicità, con vari ruoli interpretati a cavallo degli anni Novanta e Duemila. Il Maresciallo Rocca e Una pallottola nel cuore sono state probabilmente due delle sitcom più seguite, e anche lì riuscì a insidiarsi con personaggi dall’inconfondibile e contagioso sorriso.

Oltre a qualche conduzione per vari programmi sporadici o per varie serate in cui promuoveva l’arte di cui era mecenate convinto, Gigi Proietti aveva deciso di sedersi sulla poltrona in platea. Voleva osservare quel cambiamento che aveva cercato di portare e supportare sulle scene teatrali, cercando di capire se realmente qualcosa fosse arrivato. Le dimostrazioni di affetto che stanno arrivando in queste ore da ogni parte d’Italia confermano come la sua meravigliosa carriera sia stata un’innovativa dichiarazione d’amore all’arte della recitazione.

Dopo la morte di Nino Manfredi e Alberto Sordi, era rimasto solo lui della vecchia guardia. Un tris stile King, Soldatino e D’Artagnan, in cui lui era l’ultimo di questi. E per salutare un grande, forse non esistono parole migliori di quelle che usò proprio lui per salutare Albertone nel 2003 in piazza San Giovanni. Fa sorridere pensare che in qualche modo abbua scritto a sé stesso un sonetto senza saperlo; o forse sì. Del resto, pensadoci bene, è perfettamente in linea con chi decide di nascere e morire lo stesso giorno.

Hai fatto n’artra mandrakata.

Ciao Gigi.

 

Io so’ sicuro che nun sei arrivato ancora da San Pietro in ginocchione,
a mezza strada te sarai fermato a guarda’ ‘sta fiumana de persone.
Te rendi conto sì ch’hai combinato,
questo è amore sincero, è commozione,
rimprovero perché te ne sei annato,
rispetto vero tutto pe’ Gigi.
Starai dicenno: ma che state a fa’,
ve vedo tutti tristi nel dolore
e c’hai ragione,
tutta la città sbrilluccica de lacrime e ricordi
‘che tu non sei sortanto un granne attore,
tu sei tanto di più, sei Gigi Proietti.

 

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Simone Biondi

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